Siamo servi senza pretese    Lc 17, 5-10


+ Dal Vangelo secondo Luca

« In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: "Sràdicati e vai a piantarti nel mare", ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: "Vieni subito e mettiti a tavola"? Non gli dirà piuttosto: "Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu"? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: "Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare"». »

Anche oggi dobbiamo registrare la nostra protesta di fronte al comportamento del padrone della parabola, che giudichiamo ingiusto e contrario alle norme che tutelano i diritti dei lavoratori. Contemporaneamente allo sviluppo della conoscenza scientifica e al progresso tecnico si è realizzato un percorso etico che ha fatto crescere la consapevolezza del valore della persona e dei suoi diritti. Io penso che il messaggio evangelico abbia contribuito a questo cammino e fornisca i fondamenti dell’umanesimo, che riconosce l’altissima dignità di ogni persona umana e impone di sostenere e rispettare i suoi diritti inalienabili.

Nel tempo il dovere di rispettare la persona umana è stato applicato anche ai rapporti di lavoro dipendente, per cui va escluso ogni atteggiamento di sfruttamento. La nostra protesta di fronte al racconto della parabola, è motivata dal fatto che giudichiamo come sfruttamento il comportamento del padrone, che chiede al servo dopo il lavorato nei campi, di preparare ancora da mangiare e servire il padrone; ci stupisce il pensare che tale sia il comportamento di Dio. Occorre sempre collocare il discorso di Gesù nella situazione culturale del suo tempo che accettava tranquillamente la schiavitù, e non possiamo valutare il suo racconto con le nostre categorie.

Da tempi molto antichi gli uomini hanno imparato che non potevano produrre da soli tutte le cose necessarie alla vita, ma alcune le dovevano avere dagli altri attraverso lo scambio dei prodotti. Ancora oggi utilizziamo questo tipo di relazione ogni volta che andiamo ad acquistare un prodotto al mercato, anche se lo scambio non è ricompensato da altro prodotto, ma si utilizza il denaro come merce di scambio.

Il modello della relazione commerciale è così radicato dentro di noi che ci aspettiamo di essere ricompensati, almeno con un “grazie”, ogni volta che facciamo un favore o sentiamo di doverci sdebitare ricompensando chi fa qualcosa per noi. Questo modo di vivere la relazione la usiamo anche nel rapporto con Dio. Se preghiamo, lo facciamo con l’aspettativa che Dio ci ricompensi con la sua protezione; ogni volta che facciamo un gesto religioso abbiamo la speranza di ricevere la benevolenza di Dio. Tra qualche domenica incontreremo la figura esemplare di questo modo di pensare nel fariseo che va al tempio e presenta a Dio l’elenco delle cose buone che fa.

Ritengo che il racconto della piccola parabola voglia dirci che la relazione con Dio non va coltivata allo scopo di averne poi la ricompensa, ma perché quella relazione dà pieno valore alla vita. Dio non è un padrone e noi non siamo servi per Lui, ma Dio è Padre e noi siamo i suoi figli; amarlo e vivere aderendo alla Sua volontà non è fare una cosa onerosa che si giustifica soltanto con la successiva ricompensa. Se viviamo da figli e amiamo il Signore, è perché Lui ci ha già amato per primo, facendo per noi molto più di quanto noi possiamo fare per Lui.

Possiamo richiamarci a qualche esperienza rimasta impressa nella nostra memoria, che non ha avuto come esito immediato un profitto, ma che ha fatto emergere un aspetto della nostra persona, che ha raggiunto e fatto vibrare una corda del nostro animo. Ha senso per me, uscire da casa verso sera in una giornata di sole, andare verso il mare per vedere il sole calare all’orizzonte fino a tuffarsi nel mare, mentre il cielo si tinge di svariati e sorprendenti colori. Eppure se uno mi chiedesse: “Che cosa ci guadagni da questo?”. Io risponderei: “Niente”; infatti, sembrerebbe un gesto inutile che non serve. Restare incantato di fronte al tramonto, mi dà consapevolezza della grandezza, dell’armonia, della bellezza dell’universo e sento che io così piccolo, sono parte di questo immenso disegno. Ugualmente posso riferirmi all’esperienza del restare incantato di fronte ad un quadro, o all’ascolto di una sinfonia, o alla lettura di un libro. L’esperienza più significativa è l’amicizia, un’esperienza assolutamente inutile dal punto di vista del guadagno, eppure è l’esperienza che riempie la vita di senso. Ci sono esperienze che non servono se calcolate con la misura del profitto economico, ma sono importantissime perché ci fanno sentire vivi, ci danno coscienza di ciò che siamo.

« Cosa ci guadagno ad avere figli? » ... ecco la risposta: « Niente » - anzi sono un grosso esborso - « ma vederli così diversi, eppure simili, amarli, accettare l'imprevedibile, rende la vita piena di gusto ... »

Allora possiamo chiederci: “Cosa ci guadagno dal credere in Dio?”. Ecco la risposta: “Niente, ma mi accorgo che il credere in Dio mi rende bella la vita, perché mi fa sentire amato”.

il Parroco