Colui che mangia me vivrà per me. Gv 6, 51-58
« In quel tempo, Gesù disse alla folla: Ascoltando oggi le parole di Gesù tratte dal capitolo sesto del vangelo di Giovanni, che contiene la sua rivelazione come Pane della vita, siamo colpiti dall’insistenza con cui dice la necessità di mangiare la sua carne. Il realismo delle parole, al primo impatto, ci fa rabbrividire. Riusciamo a comprendere meglio il significato di queste parole se teniamo presente una particolarità delle lingue ebraica e aramaica, le quali non hanno un ricchissimo numero di vocaboli per esprimere tutte le sfumature di un discorso. Inoltre sono lingue che non amano esprimere concetti astratti, ma prediligono espressioni che rimandano alla dimensione materiale e concreta. Noi parliamo di un altro uomo come di una persona intendendo con questo vocabolo l’insieme del suo essere, il suo corpo come appare alla percezione dei sensi ma insieme anche gli aspetti spirituali, come il suo carattere, le sue idee, il suo modo di manifestare emozioni. Un ebreo parlerebbe dell’altro come di un corpo, di una carne, considerandolo piuttosto come lo percepiscono i sensi: un corpo concreto e visibile, strumento necessario attraverso il quale si fa anche un’esperienza spirituale. Dicendo della necessità di mangiare la sua carne, Gesù intende dire la necessità di introdurre dentro di noi il suo modo di vivere, quel modo che egli ha vissuto certamente utilizzando le sue mani, i suoi piedi, cioè la sua carne. Gesù trova nell’esperienza del mangiare e del bere l’immagine adeguata a farci capire come si può realizzare questo passaggio: dal Gesù guardato come una presenza che sta di fronte a noi, al Gesù che invece è una presenza interiore che ispira il modo di vivere. Il cibo inizialmente è qualcosa che sta fuori di noi, attraverso il mangiare entra in noi e con processi di trasformazione si lega sotto forma di proteine o zuccheri o vitamine alle nostre cellule e costituisce l’energia che ci fa vivere. Mangiare fa si che il cibo passi dall’essere fuori di noi all’essere dentro di noi. Così deve accadere per Gesù, che dall’essere una presenza che leggiamo nel vangelo, deve diventare presenza interiore che ispira la nostra vita. Tradizionalmente s’interpretano le parole di Gesù come una prefigurazione del Sacramento dell’Eucarestia, attraverso il quale Egli darà, in modo sacramentale, la possibilità di mangiare la sua carne e bere il suo sangue. Non nego che dobbiamo trovare nelle parole di Gesù un riferimento all’Eucarestia come suggerivano tutti i commenti che ho letto in questi giorni. Io dico però che non è quello il primo significato delle parole di Gesù, ma ciò che Lui intende sia invece la necessità di mangiare la sua carne, cioè di interiorizzare il suo modo di vivere, quel modo di vivere concreto e reale che Egli attua attraverso il suo corpo: le sue mani che accarezzano, i suoi piedi che camminano accanto, le sue parole che sussurrano all’orecchio. Nel sottolineare in modo realistico il termine “carne” Gesù vuole in particolare riferirsi alla croce, quando l’essere figlio si renderà visibile proprio mentre i chiodi s’incidono nella sua carne. È evidente che non possiamo intendere il comandamento di Gesù, di nutrirci dell’Eucarestia, riducendo questo ad un gesto meccanico ed esteriore. Mangiare la sua carne è invito ad assumere quella vita di Dio che si rende visibile nella persona di Gesù. Al gesto esteriore di accostarci all’Eucarestia, deve corrispondere il far entrare nella propria vita l’amore che essa esprime e contiene. Senza la disponibilità a questa trasfigurazione, senza la disponibilità a essere assimilati a quest’amore, il dono di Gesù rischia di essere vanificato. |
il Parroco |