Passione di Nostro Signore.
« Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito troverete un’asina, legata, e con essa un puledro. Slegateli e conduceteli da me. E se qualcuno vi dirà qualcosa, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà indietro subito”». Ora questo avvenne perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Dite alla figlia di Sion: “Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma”».
Nel pensare comune, gioia e sofferenza sono esperienze incompatibili, o c’è una o c’è ‘altra. Noi cristiani superiamo questa contraddizione affermando che dal modo con cui Gesù ha vissuto la sofferenza della croce deriva per noi la possibilità di dare senso alla vita e di sperimentare la gioia. Già la liturgia di oggi esprime questo significato nel comporre insieme la gioiosa processione con i rami di palma e di ulivo e il racconto drammatico della passione e morte in croce di Gesù. Il significato della Pasqua è proprio tutto giocato tra due frasi che ascoltiamo nel vangelo: una è posta sulla bocca di vari personaggi che invitano Gesù a scendere dalla croce, segno che finalmente lo farebbe riconoscere Figlio di Dio; l’altra è rappresentata dal centurione e da quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, alla vista del terremoto e di quello che succedeva dicono: «Davvero costui era Figlio di Dio!». Le due frasi rappresentano il dilemma che sta continuamente di fronte ad ogni persona. La vita ci assegna il compito di individuare il fondamento della gioia, ma ci offre anche l’esperienza che più mette alla prova le ragioni della gioia, cioè la sofferenza. Di fronte alla sofferenza e alla morte si pone la domanda: com’è vero che la vita è bella se soffro? Com’è vero che la vita è bella se muoio? Gesù ha vissuto una vita umana simile alla nostra, tutta all’insegna della coscienza dell’essere figlio di Dio, amato dal Suo infinito amore; attraverso la sua testimonianza ha reso possibile che anche noi vivessimo con la sua stessa coscienza. Se è facile vivere nella luce della fede nell’amore di Dio quando la vita si svolge come un cammino sereno circondato da affetti, ben più difficile è camminare pieni di speranza quando la strada incomincia ad inerpicarsi per le salite del dolore. Prima o poi arriva l’appuntamento con il dolore, quando non c’è nessun segno che ci aiuta a dire che siamo amati. E poi ci sono delle persone così bersagliate dal dolore della vita, per le quali ci sembra proprio impossibile poter dire che la vita è grazia, che nella vita anche loro sono amate. Possiamo pensare alle famiglie di chi ha perso il posto di lavoro, possiamo considerare la persona a cui è stata diagnosticata una grave malattia, possiamo metterci nei panni dei poveri del sud del mondo, i profughi che partono sui barconi spinti da una debole speranza, tutti quelli che scappano dalla sofferenza della guerra. Come possono ringraziare della vita tutti i crocifissi dalla sofferenza? Gesù ha accettato di stare al nostro posto, al posto di tutti i sofferenti e ha insegnato a dare senso alla sofferenza testimoniando che Dio è amore. Ecco perché possiamo dire che Gesù è figlio di Dio, proprio perché è rimasto sulla croce! Se fosse sceso dalla croce, Dio non sarebbe stato il Dio di tutti, non sarebbe stato il Dio di tutti i momenti; se fosse sceso dalla croce non sarebbe stato il Dio di tutti coloro che sono su una croce. Gesù resta sulla croce per dire la verità di Dio che si schiera, che prende parte, che sta a fianco degli uomini e delle donne, specialmente a fianco di coloro che sono sulla croce. Pensando alla croce di Gesù, possiamo sentire un po’ di paura e avere qualche perplessità ad alzare il ramo di palma e di ulivo; possiamo chiederci se davvero abbiamo voglia di fare quel gesto, che significa essere schierati dalla parte di Gesù e con Lui, dalla parte di tutti i crocefissi della terra. |
il Parroco |