Bene, servo buono.
« In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
C’è un’evidente somiglianza tra la parabola offerta oggi e quella di domenica scorsa; nei due racconti viene presentato un tempo che i protagonisti devono vivere guidati da un compito, da una responsabilità. Domenica scorsa si trattava del tempo che intercorre da quando le ragazze si radunano nella casa della sposa, fino al momento in cui lo sposo arriva. Un intervallo nel quale è anche possibile addormentarsi, ma comunque occorre prendere ogni precauzione per essere pronti, con le lampade accese, quando lo sposo arriva. Oggi si tratta del tempo che intercorre tra il momento in cui il padrone parte per il suo viaggio e consegna ai servi il suo capitale, fino a quando ritorna e chiede il resoconto su come hanno impiegato i soldi e quali frutti hanno ottenuto. Anche nel caso di questa parabola, due servi hanno corrisposto al compito assegnato, restituendo al padrone il capitale raddoppiato, uno invece restituisce il denaro ricevuto senza alcun frutto. L’insegnamento della parabola è analoga a quella delle vergini e ci vuole parlare del tempo della nostra vita. Si corre il rischio di pensare al tempo in una prospettiva solo terrena e materialistica, da cui deriva la ricerca del benessere personale. Gesù invece ci propone di vivere il tempo come contrassegnato da un compito: esso è l’occasione, il tempo propizio da usare per generare dei frutti. Frutti sono quelle opere per cui uno sente di essere contento della vita, percepisce che sta impiegando le sue capacità, ha coscienza che la sua vita ha senso. Frutti sono quelle scelte e quei comportamenti per cui vivendo in una società accanto ad altri si cerca il miglioramento della vita di tutti, soprattutto dei più deboli. Il compito di portare frutti deve essere vissuto ancor più da chi vede la vita come dono di Dio. C’è un problema nell’interpretazione della parabola dovuto al fatto che nel nostro linguaggio la parola “talento” ha assunto un significato diverso da quello che intendeva Gesù. Nei tempi antichi il talento era una misura di peso che corrispondeva a circa trentasei chili e poteva essere considerato anche una moneta se quel peso lo si attribuiva ad una quantità di oro. Oggi con il termine “talento” si definisce una particolare capacità che una persona ha nel campo dell’arte o di una qualsiasi attività. Si dice di una persona che ha il talento della musica o della pittura, un’altro può avere il talento della matematica o di una attività manuale. Certamente conta anche questo: per rispondere al dono di Dio dobbiamo utilizzare le nostre capacità, è soprattutto importante nel campo educativo aiutare i ragazzi a scoprire e valorizzare le loro capacità, ma non possiamo dire che facciamo la volontà di Dio solo perché siamo buoni pittori o valenti musicisti. I talenti sono in realtà il dono della vita, il dono della fede, il dono dell’amore di Dio accolto dalla fede. Trafficare i talenti perché diano frutto è dunque credere all’amore di Dio mettendo questa fede a contatto con la vita di tutti i giorni. Se si crede all’amore di Dio, si organizza il tempo in modo che ci sia spazio per il silenzio, per la preghiera, per l’intimità con il Padre, coltivando una dimensione spirituale. La vita nel suo scorrere porta l’esperienza della sofferenza: se si crede che Dio ci ama, avremo la forza di affrontare una malattia con animo fiducioso e riusciremo a fare di quella esperienza una offerta. Viviamo accanto agli altri che non sempre sono buoni e gentili, possiamo perciò subire dei torti o delle offese, ma con la luce della fede riusciremo a non reagire e a perdonare. Incontriamo sulla nostra strada uomini e donne bisognosi che non hanno il necessario: dalla fede attingiamo ispirazione per condividere con loro il pane. Moltiplichiamo i talenti se cresciamo nell’amore. |
il Parroco |