appunti scritti nella serata, emendati da don Luciano Smirni

ESSERE  PARROCO  40  ANNI  FA,  ESSERE   PARROCO  OGGI  – 23 novembre 2015

una finestra sulla riflessione della Chiesa oggi, sulle necessità della società che ci circonda - catechesi formativa per il Serra Club Tigullio, presso il Villaggio del Ragazzo - San Salvatore dei Fieschi 

 

Come è cambiata la coscienza che il parroco ha di se stesso.

Un tempo il sacerdote era visto in riferimento al sacro, una persona afferrata da Dio in una relazione speciale, che lo poneva al di sopra degli altri (si teneva molto la distanza). Anche l’abito talare contribuiva a marcare questa differenza. Il prete era la persona deputata a permettere l’accesso a Dio. Grande ruolo, ma anche grande solitudine.

Oggi il sacerdote si chiede sempre più spesso: chi sono io? Cosa mi dà valore? Cosa mi fa contento di esserci? La risposta è che abbiamo scoperto di essere amati, quindi di avere dignità. Questa è davvero una grande verità, ma ha anche bisogno di essere sostenuta (quelli che nel mondo scolastico si chiamano rinforzi positivi).

Il mondo laico ha alcune forme in più per garantirsi questo: corrispondere, per esempio, alle attese di lavoro; oppure amare l’altro, il coniuge, dire “ti voglio bene”, essere in relazione. Ma un prete a chi può dire “ti voglio bene”?

La visione classica del sacerdote è oggi diversa, è cambiata molto, perché è cambiato il mondo. Oggi molti ritengono di poter fare a meno del sacro, è un processo che ha accelerato a partire dal ’68 in poi. Il prete non è più riconosciuto come una presenza necessaria. Il prete non è più rispettato da tutti, è biasimato, ha perso il suo vecchio ruolo. Anche il Concilio Vaticano II, ha modificato l’immagine del parroco attenuando la sua figura di mediatore verso il sacro, per presentarlo di più come il pastore, costruttore, guida della comunità (con uno slogan: meno sacerdote e più presbitero).

Ci si veste meno con la talare (è oggi più un ostacolo che un segno di distinzione), si sente il bisogno di essere uno tra la gente. Ma della coscienza di sé, cosa è rimasto? Che cosa oggi mi può fare contento? La cultura attuale porta ad avere una maggiore attenzione alla persona più che al ruolo. Nel prete nasce l’esigenza di essere riconosciuto non soltanto per la carica che si ricopre, ma per la propria singolarità, per quel modo di essere prete che ognuno incarna.

Oggi è più difficile essere contenti di essere preti. E poiché la normalità non porta gratificazione, si corre il rischio di dividere l’“essere” dal “fare”. Da una parte c’è il fare le cose da prete, poi c’è lo spazio della cura dei miei interessi, dove trovo motivo di gratificazione. L’ideale invece è di tener vive le motivazioni per cui riuscire a fare unità, trovando motivi di senso attraverso il “fare il prete”.

Sì, oggi conta molto il mondo delle relazioni. Anche per il prete sono molto importanti le relazioni, sono un bisogno, ma questo bisogno rivela la fragilità (dice Recalcati che è la risposta dell’altro che innesca in te il desiderio [cioè la voglia di vivere], non sei tu che la determini questa voglia). Questo bisogno imprescindibile dell’altro rende più difficile il celibato. Il mondo esterno dice che vali se sei capace di fare felice una donna (un uomo). Il prete chi fa felice? Sono realtà che richiedono ancora moltissima rielaborazione.

 

Come il parroco percepisce la sua missione.

Un tempo la comunità era compatta col suo parroco. Oggi molti vivono a prescindere dalla parrocchia, le chiese sono più vuote, la gente non ha più bisogno del prete. Cresce la lontananza. Oggi la comunità parrocchiale è solo un piccolo gregge in un vasto mondo molto diverso. Come raggiungere i lontani? Oggi il prete deve imparare a chiamare i lontani. Nel paragone biblico, oggi 99 sono le pecorelle smarrite, e solo una è rimasta. Questa realtà costituisce un grande interrogativo, non facile da essere soddisfatto.

I primi missionari di una regione portano un messaggio letteralmente “inaudito”, molti stanno ad ascoltare, sono cose nuove, nuove prospettive, tutto è molto interessante. Ma il mondo occidentale non è più digiuno di vangelo, la gente sa (almeno approssimativamente) e ha scelto una via diversa. Bisogna dunque diventare capaci di raccontare in modo nuovo il vangelo a questo mondo. Ma non lo sappiamo fare (almeno non ancora), il rischio è quello di dire “curo l’ultima pecora rimasta”.

Viviamo una specie di dicotomia, da una parte capiamo che per incontrare i lontani occorre pensare modalità nuove, nuove forme di ascolto del vangelo, nuovi modi di pregare, dall’altra parte quelli rimasti ci chiedono di continuare a ripetere le modalità di preghiera consolidate in quanto ripetute da tanto tempo. Il parroco vive perciò un disagio: vorrebbe inventare nuove forme per essere comunità cristiana aperta ai lontani, ma molto spesso è costretto a ripetere antichi riti, nei quali non crede, che sente non più corrispondenti ai tempi e non più capaci di esprimere la fede.

 

Attorno alla Parola una comunione pastorale

Il disagio sperimentato di fronte ai cambiamenti che sono frutto dell’evoluzione dei tempi ha generato la ricerca di una strada nuova. La via nuova che possiamo riconoscere in tutti i progetti pastorali delle Diocesi Italiane è quella sintetizzata nella formula di “Comunione pastorale”. Ogni parrocchia e ogni parroco non può più pensarsi “ente autonomo e autosufficiente”, solo mettendosi in rete ed elaborando progetti comuni si potrà costituire una significativa presenza della chiesa.

Nella comunione possiamo sperimentare la bellezza delle relazioni con gli altri preti, condividere i successi e le fatiche, trovare ascolto e attenzione per i propri bisogni, confrontare i progetti. È un cammino a cui non tutti siamo abituati perché siamo stati formati con una mentalità individualistica.

La comunione pastorale è oggi una necessità, perché la vita delle persone non è più rinchiusa nello spazio angusto della parrocchia, le persone si spostano da una chiesa all’altra secondo l’opportunità e saranno aiutate se riescono a sentire un linguaggio comune.

Anche il minor numero di preti presenti sul territorio trova nel fare insieme la possibilità di mettere in comune risorse e competenze.

Questo è già realtà nella zona di Cicagna. Inizia anche a Chiavari, a Santa Margherita Ligure, a Sestri Levante. Abbiamo libertà di fare molte cose, ma assieme, incluso anche la condivisione di progetti pastorali. È faticoso, ma questo appare essere il futuro.

 

 

 

LA  VIRTù  DI  ACCENDERE  PASSIONE  – 11 settembre 2015

un tema di confronto ampio e interessante, quello proposto dallo psicoanalista Massino Recalcati, a Chiavari in un affollatissimo Auditorium San Francesco  ( testo definitivo )

 

Introduzione

Grazie per la vostra partecipazione, per la vostra presenza così numerosa, mi scuso per la mia assenza – il primo incontro è stato un incontro mancato, solitamente non succede mai, io sono un po’ schiavo della mia parola, quindi il fatto che sia successo proprio qui, vi chiedo scusa - ho rimediato a settembre, come succede anche a scuola, appena possibile.

Oggi cercherò di rispondere a questa domanda, che dà il titolo al nostro incontro “Come si accende una vita, come possiamo rendere una vita viva, o se volete cosa rende la vita viva, avendo in mente soprattutto la vita dei nostri figli, come possiamo rendere un albero capace di fare frutti, come possiamo rendere una vita capace di generatività – questa è la domanda che mi voglio porre - e me la porrò mettendo in campo qual è il contributo che gli educatori, i genitori soprattutto possono dare a questa possibilità che la vita sia viva, perché la vita biologica – come insegna la clinica delle depressioni – non necessariamente vita viva, conosciamo vite, di depressi per esempio, sono vite spente, sono vite che non sono accese – diceva un grande psichiatra: la soggettività del depresso dobbiamo immaginarcela come una stazione ferroviaria dove da anni non passano più treni. Vita deserta, vita morta, vita senza vita – e questo colpisce ancora di più quando ad essere depressi sono i giovani, cioè i nostri figli. E se volete uno dei tati epidemiologici più rilevanti della clinica contemporanea, la depressione non accompagna più la vita al suo scadere, la vita nel suo declino – che è un fenomeno direi quasi fisiologico, per certi versi – ma la depressione coinvolge soprattutto le nuove generazioni, abbiamo questo fenomeno clinicamente nuovo, sono cioè i giovani che appaiono spenti, senza desiderio, senza slancio, senza vitalità.

Ora, accendere un computer è molto semplice, basta fare un click. Come si accende una vita? Come si può dunque portare il fuoco? – questa è un’immagine a cui sono molto legato, è un’immagine biblica, nei vangeli apocrifi spesso ritorna questa identificazione di Gesù col fuoco, io sono il fuoco. Ma la troviamo anche forse nell’ultimo grandissimo romanzo di Conan McArty, è un’altra citazione che io faccio spesso. Il padre e il figlio, persi in un mondo senza Dio, sopravvissuti ad una catastrofe nucleare, portano il fuoco, cercano di tenere vivo il fuoco, sono pagine molto belle, in questo romanza un padre e un figlio che cercano di tenere vivo il fuoco Sono immagini molto belle, in questo romanzo il padre, il figlio che cercano si tenere vivo il fuoco. Allora la domanda è: “come si può trasmettere il fuoco, come si può accendere la vita, come si piò rendere la vita capace di portare frutti.”

 

L’esperienza del limite

Allora vi isolerò – per essere sintetico - quattro punti molto precisi, quattro contributi fondamentali, che gli adulti innanzitutto possono dare affinché la vita sia vita accesa, cioè vita capace di desiderio. Il primo è un frutto che – lo dico per schematizzare – che in realtà riguarda di più i padri, riguarda di più la figura paterna, o chi è incaricato di questa funzione a diversi livelli, come per esempio gli insegnanti, la scuola, le istituzioni, sono sempre trasmettitori della funzione paterna. Il primo grande contributo che noi possiamo dare è mostrare che la legge – lo direi così inizialmente – che la legge ha un senso. Allora quando un psicanalista, non un giurista, non un filosofo del diritto, dice il termine “legge”, cioè il primo compito della genitorialità, il primo compito educativo è porre la legge come dotata di senso, la legge ha un senso – non dobbiamo pensare alle legge descritta nei libri di diritto, nei codici – la legge che un padre deve poter introdurre nella propria famiglia, non è una legge che si trova scritta nei libri di diritto. Eppure è una legge non scritta, quella di cui il padre è il simbolo è una legge che non troviamo scritta nei libri di diritto, eppure è una legge – quella di cui il padre è simbolo – che è a fondamento di tutte le leggi. Tutte le leggi, anche quelle del diritto, si fondano su questa legge non scritta che il padre incarna.

E qual’è la legge non scritta che il padre incarna? È – potremmo dire così – la legge dell’impossibile e cioè che nella nostra vita umana non tutto è possibile. Che noi in quanto umani facciamo esperienza, siamo esposti, costretti, a fare, ad incontrare l’impossibile. Non posso avere tutto, essere tutto non godere di tutto, sapere tutto. Il primo volto della legge dunque, di cui il padre è simbolo, è introdurre nel cuore della vita l’esperienza dell’impossibile. Anche il mito biblico di Genesi parla di questo, quando per esempio Dio interdice l’accesso all’albero della conoscenza, in fondo non sta dicendo “tu non puoi conoscere, tu non puoi sapere”, sta dicendo “il sapere ha un limite”. E proprio però grazie alla presenza di questo limite del sapere, che tu puoi sapere.

Quindi allora introdurre il limite è la prima grande funzione educativa. Introdurre il senso dell’impossibile “non posso non morire”, “non posso sapere tutto il sapere”, “non posso spiegare il sapere di Dio”. Questa dimensione del limite attraversa l’umano, è ciò che umanizza la vita. I bambini, i nostri figli, hanno bisogno di incontrare l’impossibile, di incontrare lo spigolo duro del limite, non possono avere tutto, non possono essere tutto. Noi viviamo in un tempo invece che scongiura l’esperienza dell’impossibile, ritenendo perversamente che tutto è possibile, e dunque entrando in collisione con questa legge di cui il padre è il custode, tutto sarebbe possibile. Il nostro tempo vive il tempo babelico – farsi un nome da sé, assaltare il cielo – tutto è possibile, anche farsi un nome da sé, che è il delirio del nostro tempo, tutti noi portiamo il nome di un altro, nessuno di noi ha scelto il proprio nome, vuol dire che tutti noi veniamo dall’altro, dipendiamo dall’altro, l’esistenza non si fonda su se stessa, nessuno si autogenera. Il mito della autogenerazione è un mito del nostro tempo, essere figli di sé stessi. Nessuno è figlio di sé stesso, nessuno è genitore di sé stesso. Non si può essere genitori di sé stessi – vuol dire che la vita è tagliata dall’esperienza del limite –  è il primo punto molto importante.

 

L’esperienza del desiderio

Ora a questo primo punto se ne collega subito un altro e cioè se il padre è simbolo di questa legge, che è la legge dell’impossibile, e se la vita si umanizza a partire dall’incontro con l’impossibile, l’incontro con l’impossibile è finalizzato solo a rendere possibile l’esperienza del desiderio. Cioè, se non c’è esperienza dell’impossibile, del limite, non c’è nemmeno esperienza del desiderio – è il grande problema di oggi – dove viene meno il senso del limite, e venendo meno il senso del limite, viene meno anche il senso del desiderio. E la depressione giovanile è un indice di questo venir meno di questo senso del desiderio, questa eclissi del senso del desiderio, che è però un effetto della eclissi del senso della legge.  37:48

Allora - i bambini sanno molto bene questo – quando per esempio si mettono a giocare, dedicano grande tempo del loro gioco a decidere le regole del gioco. Anzi, il gioco è “decidere le regole del gioco”, una volta che sono arrivati a decidere le regole del gioco, il gioco è finito. I bambini cioè sanno che per giocare bisogna darsi delle leggi, che la legge non è ciò che opprime la vita, la legge non schiaccia la vita, la legge non è un peso che soffoca la vita, la legge è ciò che libera la vita, è ciò che rende possibile il gioco del desiderio. Allora il gioco del desiderio è reso possibile dall’esperienza dell’impossibile che la legge istituisce.

Questo binomio legge-desiderio, è un binomio fondamentale. Il nostro tempo invece – secondo me – commette l’errore di contrapporre il desiderio alla legge, e di vivere il desiderio solo nella forma della trasgressione. Come dire, c’è stato un tempo, il tempo in cui ero bambino, il tempo in cui appunto il maestro quando entrava in classe e ci diceva – io me lo ricordo ancora bene, quando in seconda elementare fui bocciato – “voi siete tutti delle viti storte, io sono il paletto, il filo di ferro, il mio compito è raddrizzarvi”. Eliminare la stortura, farvi tutti dritti, raddrizzare la spina dorsale. C’è stata un’epoca in cui la pedagogia era fondamentalmente autoritaria – è l’epoca pre ’68 – di cui ci siamo, grazie al ’68, liberati … da questa follia pedagogica.

Oggi però il problema è, per così dire, a rovescio. Mentre prima la legge soffocava il desiderio, adesso il tema è, che non essendoci più la legge, non c’è più nemmeno il desiderio, e il desiderio può essere solo perverso, cioè solo nella forma della trasgressione della legge. Ma ancora di più: una mia paziente giovane, per esempio, bulimica molto grave, ruba nei supermercati, e poi si abbuffa del cibo che ruba nei supermercati, e poi vomita questo cibo. Una volta che ruba, e che si trova a passare dalla cassa, lei ha una speranza, la sua speranza è che qualcuno la veda e le dica “no”, non si può rubare – nessuno la vede. Il padre di questa giovane ragazza si è separato molto presto dalla madre e frequenta come amanti le amiche della figlia. È un padre che non incarna in nessun modo il senso della legge, ma piuttosto il senso di una cecità nei confronti della legge, e la figlia ruba, nemmeno per trasgredire la legge, per invocare la legge. Le nuove generazioni invocano l’esistenza della legge. È la generazione che io ho chiamato “Telemaco”, invocano l’esistenza della legge, che qualcuno sappia “riportare la legge a Itaca”, che qualcuno sappia riportare la legge nella “polis”, la legge nella città. Cioè invoca l’esistenza di padri adulti, e non di padri “papi”, cioè di padri perversi. Invoca la possibilità di esistenza di padri capaci di portare il “fuoco”, cioè di portare la legge.

Allora questo è, questo binomio legge-desiderio ci spiega perché il dottor Lacan per esempio definiva il padre in questi termini: un padre è qualcuno che sa unire, e non opporre il desiderio alla legge, unire e non opporre il desiderio alla legge, è l’alleanza tra la legge e il desiderio. Anzi io dico qualcosa in più quando addirittura penso - lo penso davvero – che “il desiderio è la legge”, e che se uno segue la chiamata di questo desiderio, in tedesco “vunsch” che può essere tradotto come vocazione, voto, se uno segue la chiamata del suo desiderio, cioè se ascolta le proprie attitudini, la propria stortura, se va nella direzione del proprio desiderio, la sua vita sarà vita soddisfatta. Se uno diverge dalla chiamata del desiderio, non ascolta le legge del desiderio si ammala, è un principio elementare su cui si fonda tutta la clinica della psicoanalisi. “non c’è i

 

Non imporre il proprio desiderio

[Robert] Deleuse dice molto bene: “non c’è incubo peggiore di sognare di essere prigionieri del sogno di un altro”, e molte volte la nostra vita è prigioniera del sogno di un altro. Abbiamo abdicato al nostro desiderio per soddisfare quello dell’altro, ci siamo resi docili, duttili, abbiamo come dire consentito a soddisfare le aspettative dell’altro, soprattutto dei genitori, e non abbiamo seguito la legge del nostro desiderio. È un principio di clinica elementare: più noi seguiamo la chiamata del nostro desiderio, più la nostra vita si arricchisce, diventa feconda, dunque diventa anche generosa, altruista. Se invece la vita si rinsecchisce, seguendo le aspettative dell’altro, la vita diventa sterile, come il fico contro il quale Gesù si scaglia. E la colpa del fico è di non avere frutti, e l’unica colpa della vita, secondo la psicanalisi, è quando la vita diventa vita sterile, vita incapace di frutto, ora il frutto è il desiderio. Guardate che qui c’è un’economia, una rivalutazione, se posso permettermi, dell’egoismo – se posso dire così - cioè noi siamo abituati a pensare che l’egoismo è pensare a se stessi, ma se uno davvero pensasse a se stesso, cioè pensasse a rispondere alla legge che lo abita, a seguire il proprio desiderio, quello sarebbe l’altruista, perché sarebbe vita ricca, vita capace di dare. Divergere da questa chiamata significa invece diventare vita sterile. Allora, l’unica forma che io penso sia l’egoismo, è quando qualcuno vuole che tu viva come dice lui – questo è egoismo – è fare del proprio desiderio la misura del desiderio dell’altro. Questo è egoista.

E questo è un problema che riguarda i genitori, i genitori hanno il problema di avere delle aspettative sui figli, che a volte diventano delle gabbie, delle prigioni, e a volte il figlio si trova chiuso, prigioniero del sogno del genitore. E invece il dono più grande della genitorialità insieme a far esistere la legge, di far esistere il desiderio, ma il dono più grande della genitorialità è non avere aspettative – molto difficile, soprattutto nei tempi di oggi, non avere aspettative sui figli. Cosa vuol dire non avere aspettative, non avere in mente una immagine ideale del figlio, perché se noi abbiamo in mente l’immagine ideale che vorremmo che il nostro figlio fosse, noi lo rendiamo prigioniero del nostro sogno. E invece, il dono più grande è che il figlio cresca storto, storto a suo modo, diverso a suo modo. E guardate che è una legge veramente fondamentale, questa nei rapporti tra figli e genitori. Più i genitori si incaponiscono nell’esigere che il figlio sia ideale, più lo assediano con la loro domanda asfissiante “studia”, “studia”, “mangia”, “mangia”, “stai fermo”, “stai fermo”, più il figlio diventa un disadattato scolastico, un anoressico, un bambino iperattivo. Più il genitore dice “mangia”, più la risposta sarà oppositiva, e il cibo diventa un problema. Più un genitore dice “studia”, e più probabilmente lo studio diventerà un incubo. Allora, questa è la difficoltà, la difficoltà è mettere sui binari giusti senza incarnare un altro della domanda asfissiante, senza incarnare un altro della domanda asfissiante. Vi voglio citare una formula clinica molto chiara. Un grande psichiatra Raziel, lo psichiatra che ha coniato il termine di anoressia, ma noi la possiamo usare in generale per interpretare il rapporto con i figli. Lasègue dice “l’insistenza della domanda, l’insistenza della domanda ‘studia’ ‘studia’ ‘studia’, genera sempre solo resistenza alla domanda”. Dovremmo scriverla sui muri “l’insistenza della domanda, genera resistenza alla domanda”.

 

La necessità della dimenticanza

C’è una cosa se posso dire qua, personale, quando nacque il figlio primogenito – io da ragazzo giocavo a basket, vengo da famiglia illustre del basket, e avevo un certo talento come giocatore di basket, a dodici anni ero alto così, poi non sono più cresciuto, e gli altri lievitavano attorno a me, poi gli studi mi hanno … ho smesso di giocare – quando è nato mio figlio, ancora nella pancia della madre, sapevo che era un maschio - allora con le mie mani, nella casa di campagna che abbiamo ho costruito un campo di basket, un piccolo campetto da basket in attesa che il figlio arrivasse e pronto a passargli il testimone – non ha mai voluto saperne del basket. Da principio ha percepito la mia insistenza, e ha sempre detestato il basket, finché ad un certo punto, qualche anno fa ho detto “basta, rinuncio”, perché lo portavo a vedere l’Armani-Jeans, e partite eccetera, “rinuncio”. E dopo un paio d’anni dalla mia rinuncia, torno a casa e sento il pallone di basket in casa, e vedo che maneggia la palla di basket e mi chiede di insegnargli delle cose. Questo è un esempio molto semplice, per dire che quando un genitore molla, molla la presa, lascia la presa, arretra … il figlio parla.

C’è un esempio molto bello di questo nel romanzo autobiografico di Michele Serra “Gli sdraiati”, c’è un punto molto - se volete biblico – di questo romanzo, avete presente la storia di un padre e di un figlio cosiddetto “sdraiato”, una mutazione antropologica, no, i giovani adesso stanno in orizzontale, sui divani, guardano la tv, giocano con l’iPad, guardano il cellulare, non si ascolta più, fa impressione, no … anche nei ristoranti, le coppie che ciascuno col proprio cellulare … io sono sempre impressionato di questo effetto devastante dell’oggetto tecnologico … insomma un giovane dei nostri tempi e il padre vuole trasmettergli la passione che lui ha per la montagna, il figlio non ne vuol sapere, ma un giorno dice “sì, ok andiamo in montagna” e il padre lo porta – questa straordinaria passeggiata in montagna – il figlio si presenta la mattina presto con una levataccia - figlio adolescente – paurosa, che fanno quelli che amano la montagna, vestito totalmente fuori luogo, i jeans strappati, le mutande di fuori … le scarpe totalmente inadatte … il padre, va bè, si rassegna e lo porta. Quindi conciato in questi termini il figlio è sempre dietro le spalle del padre. Il padre lo vede dopo un’ora di camminata arrancare su queste scarpe disagevoli, che fanno fatica a camminare su sentieri di montagna. E mentre … ad un certo punto il padre ad un certo punto lo vede lontano trenta quaranta metri e pensa “ora mi fermo e torniamo a casa” ma ad un certo punto il padre si distrae, guarda il paesaggio e continua a camminare, non guarda più il figlio, cioè si dimentica del figlio, e nella misura in cui si dimentica del figlio, quando si gira per vedere dove si trova, non lo vede più. Allora lo cerca e dice “ma dov’è, devo tornare sotto a prenderlo?” In realtà il figlio è duecento metri davanti del padre. È il figlio che chiama il padre, perché il padre si è dimenticato del figlio, e nella misura in cui il padre si dimentica del figlio, il figlio lo può superare. Questo è un punto fondamentale, è il dono della dimenticanza. I genitori devono riuscire a dimenticare i loro figli – molto difficile – lasciarli andare.

 

La trasmissione del desiderio

Allora questo mi porta al terzo elemento – andando veloce ma … l’impossibile, il desiderio, abbiamo detto – io penso che nella trasmissione del desiderio, il fuoco, come avviene la sua trasmissione? In un solo modo, certamente abbiamo detto calmierando la domanda – non bisogna stare addosso ai figli, non bisogna mai stare troppo addosso ai figli, lo stesso si potrebbe dire della vita di coppia, mai stare troppo addosso – lasciare liberi, non troppo addosso, ma c’è un altro contributo fondamentale, perché il desiderio si trasmetta dai genitori ai figli bisogna che i genitori, e direi gli educatori, gli insegnanti, chiunque si occupi di educazione, lo faccia con desiderio. Perché il desiderio si trasmetta da una generazione all’altra, bisogna che chi si occupa di questa trasmissione desideri fare quello che fa. Allora la trasmissione del desiderio non avviene spiegando cos’è il desiderio, non avviene secondo la retorica pedagogica, attraverso le spiegazioni del senso del mondo.

Gli educatori più insopportabili – a mio giudizio – sono quelli che ha hanno la pretesa di dirci cos’è il bene, il male, il giusto, l’ingiusto … spiegare il senso della vita, questo ai giovani è insopportabile. Per un giovane sentire un educatore che spiega quale è il senso della vita – provate a farlo con un figlio adolescente, spiegategli cosa è il senso della vita, tutta la notte a spiegagli cos’è il senso della vita, vi dirà certo sì hai ragione, fantastico, questa è una figata, e il giorno dopo fa esattamente quello che faceva prima – entra da un orecchio e esce dall’altro, spiegare il senso della vita. Cosa convince, cosa è convincente, cosa lascia un segno, cosa non esce da un orecchio all’altro, cosa resta dentro un giovane, non chi spiega il senso della vita – tutti i figli psicotici, gran parte dei figli psicotici hanno avuto padri educatori, il più noto è Schreber, ha avuto un padre, grande educatore, grande pedagogo, Piaget ha prodotto anche lui delle disgrazie … perché avere uno che ti spiega quale è il senso della vita, per un figlio è insopportabile. Qual è il dono, dov’è il dono, non è spiegare il senso della vita … è mostrare attraverso la propria vita che la vita può avere un senso. Mostrare nel silenzio della propria vita, dei propri fatti, dei propri atti, dei propri gesti, delle proprie passioni, che la vita può avere un senso … non dire quale è il senso, ma incarnare, è questo tema della “incarnazione”, se volete un altro tema cristiano, il tema del Verbo che si fa carne, cioè che testimonia … ma la testimonianza è sempre silenziosa, e tra l’altro per un figlio la testimonianza non deve avere effetti immediati. Un genitore deve pensare a questo, che c’è un tempo di semina, e il tempo di semina esige un tempo di crescita.

Per esempio io posso dire oggi, a 55 anni, che quello che vedevo a 10 anni nella vita silenziosa di mio padre, che mi trascurava per lavorare dalla mattina alla sera per la nostra famiglia, che quello che allora non capivo di mio padre – cioè l’amore per il suo lavoro, la dedizione per le sue piante, per i suoi fiori – tutto quello ha agito in me come una testimonianza dell’unione fra la legge e il desiderio. Ma lo posso dire adesso, retroattivamente, posso cioè recuperare quell’atto per me come un insegnamento, cioè come una testimonianza. Per questo bisogna avere fiducia, se un genitore ama – meglio la propria compagna, secondo me la madre – se ama il proprio lavoro, se ama quello che fa, tutto questo passa ai figli, crea un ossigeno, un lievito, contagia … e non dobbiamo aspettarci che lo faccia subito … è una sedimentazione nel tempo. Come si trasmette il desiderio? Si trasmette incarnandolo.

È lo stesso tema di cui ho parlato per la scuola: quali sono i maestri che non abbiamo dimenticato? Perché non abbiamo dimenticato certi maestri? Non tanto per quello che ci hanno insegnato, non tanto per il contenuto della loro didattica, ma per come insegnavano, per lo stile, il loro stile è indimenticabile. E che cosa è lo stile? È la capacità di entrare dei nostri maestri in un rapporto erotico col sapere. Fare dei libri dei corpi, fare degli oggetti del sapere dei corpi erotici. Far sentire che quello di cui essi parlavano era l’oggetto del loro desiderio. Questo provoca il desiderio dell’allievo, trasforma l’allievo in amante - Erastés, amante, il testo di Platone parla di questo allievo che diventa amante – vogliono toccare quel corpo, il libro che diventa corpo … respirare quel libro che diventa corpo. Questa trasformazione non è dovuta al contenuto – ripeto - ma allo stile. Dunque questo è l’altro grande dono che l’adulto può fare, il genitore può fare, cioè incarnare, dare corpo al proprio desiderio per trasmettere il desiderio al figlio.

 

La fede nel figlio

C’è un’ultima cosa … altre due cose che volevo dirvi, altre due operazioni che servono a trasmettere il senso della vita – si potrebbe dire così – una è quella della fede, uso il termine fede in modo laico. Io penso che un grade dono che il genitore può fare è avere fede nel figlio. Avere fede significa – come dire – rinunciare alle nostre aspettative per “avere fede nella stortura del figlio”. Guardate che “tutte le cose che ad alcuni genitori paiono strambe, bizzarre, dei figli, da correggere, e che a volte i genitori correggono, cioè tutti i punti dove la vite del figlio è sghemba, storta, strana, sono i punti di forza”. Se un genitore riuscisse a leggerli meglio, se un maestro riuscisse a leggerli meglio, quel modo di interessarsi dell’oggetto tecnologico, che può essere anche patologico, ma se io lo curvo nella direzione giusta diventa una grande chance per il figlio. Oppure il rapporto che un bambino, un ragazzino ha col suo corpo, con lo sport, girato nel giusto modo questo rapporto, che sembra essere un rapporto a senso unico, morboso, eccetera, diventa punto di forza, cioè l’insegnamento è quello che un grande poeta della vostra terra aveva detto una volta che “è solo dal letame che nascono i fiori”, quando noi diciamo che dal letame nascono i fiori vuol dire che dalla bizzarria, dalla anomalia, dalla stranezza di un figlio – non dobbiamo avere paura di questo, ma coltivarla, avere fede … per certi versi è quello che scopre il padre de “Gli sdraiati”, no, il figlio lo supera – avere fede nei figli, avere fede quando un figlio dice “vorrei fare questo”, e noi guardiamo la realtà e pensiamo “dove andrà a finire se farà questo?” – ogni genitore responsabile fa questo ragionamento qua, eppure dovremmo, secondo me dovremmo, dare una chance, credere nella serietà.

Ora è chiaro che ci vuole una prova, cioè deve dirci che questa cosa non è un capriccio, non va e viene ma dura nel tempo. Allora se un figlio manifesta un desiderio, che contrasta con la realtà, ma che dura nel tempo, bisogna credergli, bisogna dargli fiducia. Se un figlio chiaramente si comporta con i desideri come di fronte a una gelateria – non so, mio figlio che chiede un gelato ci mette mezz’ora, non sa quale gusto scegliere, cambia continuamente – quello non è un desiderio, quello è un capriccio. Il desiderio è una legge, una legge che si impone. È quello noi che potremmo dire più banalmente, psicologicamente, le attitudini, le attitudini di una vita, le vite hanno delle attitudini, c’è chi fin da bambino ci sa fare con i numeri, chi con la musica, chi con le parole, chi con gli oggetti, chi con le mani, bisogna seguire questo, e avere fede comporta ovviamente pensare che il desiderio è più forte della realtà, il desiderio è più forte della realtà – è per questo che il desiderio sposta le montagne, e le sposta veramente.

 

La promessa

L’ultima cosa su cui volevo dirvi, è un’altra parola che declinerei laicamente, cioè secondo me, l’ultimo grande dono che i genitori possono dare è quello – assieme alla legge, al desiderio, alla assenza di domanda asfissiante, alla fede – è quello della promessa. Io penso che gli adulti, gli educatori, debbano sostenere una promessa, e quale promessa? La promessa è – lo dico nel modo più semplice possibile – la promessa è … ad un figlio a cui noi impediamo l’accesso – faccio un esempio semplice – l’accesso infinito a Internet, cui mettiamo un limite, noi mettiamo un limite, ma questo limite è accompagnato da una promessa, cioè io ti prometto che se tu ti stacchi da questo oggetto, se tu non ti perdi in questo oggetto – Pasolini direbbe “se tu non ti perdi nella droga” – e Pasolini, in fondo, sotto il termine droga intendeva tutte le dipendenze che schiacciano e distruggono la vita – se tu ti stacchi dalla droga, e tu rinunci al godimento della droga, si tratta di un godimento, se tu rinunci a quel godimento lì, tu potrai raggiungere – te lo prometto – un godimento molto più ricco, molto più grande, molto più fecondo, che questo altro godimento che io ti prometto, ti dico che esiste, che è il godimento dell’amore, dell’eros, della passione, del desiderio, e che non c’è rapporto tra questo altro godimento e quello in cui tu ti perdi, che questo altro godimento è infinitamente più ricco di quello in cui tu ti perdi, e come posso sostenere la promessa, che non sia di marinaio? Nella misura in cui la incarno. Tu vedi che nella mia vita, nella mia via, io realizzo esattamente la promessa che sostengo, preferisco – non so - l’amore di tua madre, o, non so, l’amore per i libri, l’amore per la scrittura, l’amore per quello che faccio … al perdermi nella droga.

Grazie !
 

 

Dibattito

Gastaldi: ringraziamo il professor Recalcati per questi primi spunti, abbiamo ancora una mezzoretta di tempo per stare insieme e confrontarci, inizio io con una domanda. Più volte negli spunti che ci ha offerto Massimo Recalcati è ritornata la figura del padre o comunque di colui che incarna la paternità, a me veniva in mente “e a questo punto la figura della madre? Che ruolo ha? Visto che anche uno dei suoi ultimi libri appunto affronta questo tema.

Recalcati: allora, una madre sufficientemente buona e una madre che per un verso sa offrire – usiamo questa immagine – le proprie mani, dare le proprie mani, come dice Freud “la madre è il nome del primo altro soccorritore” – una bella immagine – “altro soccorritore”, la madre soccorre il bambino che urla nella notte, soccorre il bambino che cade nell’angoscia, offre le sue mani, offre la sua presenza – questo è un punto, primo punto. Ma una madre sufficientemente buona è – e qui dobbiamo cogliere tutto il paradosso di questa definizione – è anche una madre che non è mai, in quanto donna, tutta madre. Cioè una madre sufficientemente buona è una madre – scusate – è una donna che non si esaurisce nella madre. E cioè che sa donare al suo bambino, oltre le sue mani, la sua assenza. Questo è molto importante, è un principio di salute mentale delle madri … e dei bambini.

Perché se un bambino esaurisse il mondo della madre, sarebbe prigioniero del suo sogno. Ma la madre deve poter dire al bambino che la sua vita di donna non si realizza tutta nella maternità, ma che c’è un al di là della maternità, che è esattamente la femminilità. E che diventare madre per una donna non significa morire come madre. E che il bambino si può separare dalla madre solo se percepisce di non essere tutto per la madre. È dunque la donna che salva la madre, è il desiderio della donna che salva la madre. Ora il desiderio della donna cos’è, è il desiderio di altro. Solitamente, nella famiglia che funziona, è il desiderio del padre – adesso le cose si sono complicate molto, no – una volta era che il desiderio della donna vive, dopo il primo innamoramento col figlio, in cui il marito, il padre è escluso, giustamente – io ho scritto quattro libri nelle gravidanze di mia moglie – dunque c’è un tempo in cui noi siamo fuori, bisogna cavarcela, ciascuno se la cava a suo modo, la libido deve andare da qualche parte - io scrivo i libri per questo – e poi c’è, se le cose funzionano, il vento del disgelo, la primavera, il ritorno della libido, e … la donna ritorna.

Per questo la nascita di un bambino non sempre rafforza la coppia, a volte la nascita di un bambino genera la crisi di una coppia. E la crisi è dovuta al fatto che una donna non vuol essere tutta madre, e al tempo stesso una donna guarda il proprio compagno, e lo vorrebbe … non tutto padre. Abbiamo questa difficoltà, ma insomma il punto chiave è che il desiderio della donna è desiderio al di là del bambino, che può essere appunto il padre, può essere un lavoro, una passione, un interesse profondo di questa donna … a cui il bambino non può rispondere, non deve poter rispondere. Allora in questo senso i bambini hanno bisogno – lo dico pesando le parole – i nostri figli hanno bisogno anche di essere abbandonati. Cioè, ovvio, li possiamo abbandonare solo se gli abbiamo offerto le mani, perché se no sarebbe un traumatismo, li possiamo abbandonare solo se abbiamo risposto al loro grido quando era necessario. Ma è tutto il passaggio dall’infanzia all’adolescenza questo, no.

Nella bibbia si dice – una bella immagine che ho usato come esergo nel complesso di Telemaco, una bellissima immagine – i bambini, ma qui dico i bambini molto piccoli, i primi mesi di vita dei bambini, i primi anni di vita dei bambini … “i bambini hanno tutti odore di campo” – una bellissima immagine – infatti, se annusiamo la testa di un bambino, tutti hanno lo stesso odore, è l’odore neutro del campo. Noi sappiamo che l’adolescenza porta con sé un altro genere di odori, l’odore di campo no, si “sporca” tra virgolette di un mix più hard di odori, è la sessuazione del corpo. Allora è chiaro che il bambino, finché è campo, esige la presenza, si angoscia dell’assenza. Un adolescente non si angoscia dell’assenza, si angoscia della presenza. Cioè l’adolescente dice “lasciami respirare”, donami un po’ di assenza. È il rovescio della posizione infantile. Allora io penso che questo accada anche per una madre, una madre deve saper donare la sua presenza, e deve saper donare la sua assenza, deve sapere andare via. Ma per andare via deve sapere che il suo desiderio di donna non si realizza tutto in quello di madre

Marcucci: sto pensando, stai dando quasi una immagine della sacra famiglia, ideale da certi punti di vista, nel senso che … la posizione del figlio, che è poi Telemaco fondamentalmente. Perché poi in questi incontri il rischio è che ci sia la colpevolizzazione solo degli adulti, che sola la famiglia, là dove ci sono problemi, gli adulti possono pensare … ogni genitore sa che se va bene si barcamena … puoi dire qualcosa sull’ereditare, sulla posizione del giovane, sulla posizione di quello che tu definisci “il giusto erede”

Recalcati: intanto questa idealizzazione della famiglia, naturalmente devo dire una cosa, cioè io penso che – e dobbiamo dircelo questo – anche in quella famiglia, in tutto quello che ho detto questa sera si realizzasse, non sarebbe mai sufficiente a garantire la felicità del figlio. Noi possiamo preparare il terreno, possiamo scegliere il terreno più fertile, l’esposizione al sole più giusta, proteggere addirittura con una serra, ma nessuno di questi gesti potrà garantire la felicità dei nostri figli. Perché? Perché la vita è fatta anche di cattivi incontri, aleatorietà, possibilità di perdersi, di non ritrovarsi più. Diciamo, la vita non è un’autostrada, e allora noi non possiamo mai garantire la felicità dei nostri figli. Massimo Cacciari, in un intervento che io cito spesso, ci ricorda che l’etimologia del termine “erede”, figlio in quanto erede “res”, viene da “orphanos”, cioè che tutti i figli, in quanto eredi, sono anche orfani. Cosa vuol die, orfani nel senso che nessun padre, nessuna madre, possono garantire la felicità di un figlio. A volte in analisi vengono dei genitori, che mi parlano di figli ventenni persi nella droga, per esempio, o abulici, apatici, senza desiderio … e io mi accorgo ascoltandoli, e ponendo tutte le domande necessarie clinicamente, per farmi un’idea del quadro, che questi genitori non hanno sbagliato niente, non hanno fatto errori, eppure il figlio è uscito di strada. Non hanno fatto errori, non saprei di cosa rimproverarli.

Allora questo significa che nella vita psichica non c’è mai determinismo, le cose sono sempre più complesse, sono sempre più imprevedibili, questo non vuol dire – come dire – ridurre l’importanza del compito educativo, anzi significa potenziarlo. Si potrebbe leggere l’altra faccia della medaglia, e cioè vite cha hanno avuto genitori disastrosi, assenti, traumatizzanti, abbandonici, si sono costruite una generatività attraverso gli incontri della vita, hanno incontrato testimoni del desiderio fuori della famiglia, nel ondo, nella strada, nella scuola, nella comunità in cui lavoravano, in cui vivevano. Allora per questo dico sempre, quando – ma si aprirebbe su questo un capitolo a parte – quando si dice “madre”, si dice “padre”, noi dovremmo sempre prendere queste parole al di là della biologia, noi dovremmo prendere queste parole nel lori significato più simbolico, come dire, Françoise Dolto diceva: la figura più alta del testo biblico, per esempio, è la figura di San Giuseppe, ma San Giuseppe, come tutti noi sappiamo, non è il padre biologico.

Allora questo vuol dire che, se noi vogliamo veramente capire cos’è il mestiere del genitore, dovremmo sempre guardare ai genitori adottivi, perché un genitore è sempre, se è un genitore, un genitore adottivo. Non basta lo spermatozoo per fare un padre, non basta generare un figlio per essere genitore, ci vuole qualcos’altro, ci vuole l’adozione della vita, cioè io mi assumo la responsabilità della tua vita … illimitatamente, illimitatamente. Ora questo c’è, avviene anche in rapporti che sono al di là del sangue, al di là della stirpe. Se voi prendete – è un mio riferimento molto costante – tutto l’ultimo cinema di Clint Eastwood, soprattutto “Gran Torino” “Million Dollar Baby”, voi vedete che le coppie di padre-figlia, padre figlia “Million Dollar Baby” Frankie e Maggie, padre e figlio Walt e Thao in “Gran Torino”, sono coppie non biologiche, non vengono dal sangue. C’è un allenatore di pugilato e un vecchio ubriacone reduce della Corea, che si assumono la responsabilità di dire sì alla domanda di qualcuno che cerca un padre. Io trovo che questo è un grande insegnamento, non in opposizione al testo biblico – qui si aprirebbe una grande … magari domani parleremo a Roma di questo – però se voi pensate, tutte le grandi figure delle matriarche nell’antico testamento sono madri, sono donne sterili. La biologia non c’entra con la maternità. La maternità passa attraverso la parola, passa attraverso l’altro, passa attraverso un altro genere di miracolo, che non è quello della biologia, non è il materialismo delle cellule, non si può pensare la maternità, la paternità a partire dal materialismo delle cellule. È il dono della parola che rende possibile la maternità e la paternità.

Gastaldi: il professor Recalcati accennava a Roma, perché domani sarà relatore a un bell’incontro alla “Civiltà Cattolica” in cui appunto ci si confronterà anche su questi temi, per cui saranno sicuramente ottimi gli spunti che ne usciranno. Lei accennava prima al fatto che è stato bocciato in seconda elementare, non per mettere il dito nella piaga ... visto che qua ci sono tanti insegnanti, ecco, cos’è poi che le ha permesso pio di avere una grande passione per lo studio e per la scuola?

Recalcati: in realtà io ho un curriculum molto peggio di così. Sono stato bocciato due volte, in terza elementare con la maestra, la maestra della vite, e poi in seconda superiore nell’istituto professionale specializzato nella coltivazione di piante tropicali in serre calde, che frequentavo nella banlieue di Milano Quarto Oggiaro, perché nei fine anni ’70 Milano era – diciamo – una città molto animata – diciamo così – e allora in uno slancio politico abbiamo buttato giù dalle finestre banchi, cattedre, registri … hanno chiamato mia madre … suo figlio … e mia madre piangeva sempre, io ricordo di aver fatto piangere mia madre tante volte e su questo punto però, per darvi l’idea di che cos’è una promessa, mia madre che è una donna friulana, che è stata emigrata in Svizzera, ha lavorato come domestica in Svizzera, quindi un’emigrata, poi è rientrata in Italia, mi ha avuto che aveva 19 anni, e io ricordo che di fronte a queste bocciature ripetute – rispondo alla tua domanda, eh – di fronte a queste bocciature ripetute io dicevo “io, basta, non ne voglio più sapere della scuola”, volevo fare politica a tempo pieno, e lei ad un certo punto mi fermò sulla porta … io col mi eschimo, pronto ad andare in strada … e lei mi disse che dovevo continuare a studiare, almeno fino al diploma, e io le dico “ma perché mi chiedi questo?”, e lei dice “perché se tu continuerai a studiare non sarai come me, avrai la possibilità di vedere più cose di quelle che ho visto io”. Ecco, questa è la promessa, l’ha promesso, non era una promessa da marinaio. E dunque questa posizione di mia madre, una donna analfabeta, non dico analfabeta, però quasi analfabeta, mi ha fermato e dunque mi ha portato a riprendere gli studi - io avevo interrotto gli studi - a riprender gli studi.

E poi Dio vuole che proprio nell’anno successivo in cui ho ripreso gli studi, sempre in quell’istituto, sempre a Quarto Oggiaro arrivò – come descrivo ne “L’ora di lezione” – arrivò la bellissima, giovanissima Giulia Terzaghi, che fu la mia insegnante di lettere, in quell’istituto abbandonato dal Signore arrivò questa “meteora” – una classe di maschi orribili, e la scuola orribile – arrivò questa bellezza della parola, che ci spiegava i poeti, ci spiegava la letteratura, e io mi feci “rapire”, letteralmente rapire, cioè mi attaccai con tutta la mia forza a questo treno … …. …

Gastaldi: anche questa mi pare una dimostrazione della passione di quello che si dice, vedevo che nel racconto della madre gli occhi … penso che questa sia una bella testimonianza di quello che dicevi. Fulvio Di Sigismondo che coordina le politiche giovanili del Distretto Socio Sanitario, una domanda.

Di Sigismondo: arrivo ad interrompere un momento emotivo con una domanda che … ha un tenore un po’ diverso. Ehm … no, io volevo porre questi tipo di quesito che attiene un po’ con il lavoro sociale con i giovani, anche se lei ci ha già offerto molti spunti per me molto preziosi perché vanno anche un po’ a delineare un identikit adulto, ecco … per risultare anche incidenti. Io credo che per molti anni, nella pratica del lavoro sociale con i giovani, abbiamo molto insistito sul concetto di individuare ciò di cui i giovani avevano bisogno, per lo meno di presumere di individuare i bisogni, e di costruire intorno ai bisogni delle risposte, nel senso soprattutto di attribuire al bisogno un po’ l’accezione della lacuna, della mancanza – ecco – della necessità. Ecco io ritengo che oggi questa stagione di costruire l’intervento sociale con i giovani, su questo tipo di meccanismo, sia un po’ al tramonto, perché forse i bisogni dei giovani sono molto articolati, forse noi come adulti ci sentiamo anche un po’ con delle armi un po’ spuntate, anche se oggi credo che l’incontro col professor Recalcati ci possa aiutare ad affilare anche un po’ meglio gli strumenti – diciamo da questo punto di vista. Io volevo chiedere un po’ se questa mia convinzione, questa mia idea è da lei condivisa, oppure no.  01:21:18

Recalcati: Beh … io non ho esperienza di lavoro nel sociale a questo livello – diciamo – sono un clinico, quindi mi sono occupato molto di giovani nella clinica, nelle istituzioni … molto nella scuola. Come “Jonas” abbiamo fatto un grande lavoro nella scuola. Un lavoro con le famiglie, un lavoro con gli insegnanti – molto importante con gli insegnanti – perché la scuola “consuma” i migliori, consuma i migliori insegnanti. Li … … se voi avete presente “The Wall” dei Pink Floid, un grande film sull’educazione, no … avete presente il tapis roulant della canzone più famosa “The Wall” dove ci sono tutti i ragazzi in fila indiana, vestiti uguali, che cadono nel tritacarne. Noi dobbiamo pensare che oggi – ma forse questo riguarda anche il vostro lavoro – che oggi su quel tapis roulant non ci sono tanto gli allievi, ci sono gli operatori, gli insegnanti, sono gli insegnanti che diventano carne trita, perché si trovano, come anche gli operatori sociali, sommersi di una domanda sempre più angosciante, perché nella misura in cui la famiglia è latitante nell'esercitare la funzione educativa, questa domanda si sposta sulle [spalle degli operatori, degli insegnanti manca una parte del testo a causa della interruzione della trasmissione, dovuta al temporale in atto] .

Penso questo, penso che sia qualcosa che porta qualcuno a amare chi impara … io sono anche un professore e ogni volta che insegno, adoro insegnare perché amo chi impara. E con gli insegnanti angosciati nel “burnout” - come si dice – cioè in grandi difficoltà eccetera … noi ricordiamo il punto preciso in cui hanno deciso “voglio fare questo”. Ristabiliamo il contatto tra l’insegnante e il suo desiderio, che poi ha incontrato tante frustrazioni, che a scuola, per esempio, un insegnante fa mille cose che non centrano niente con l’ora di lezione, l’ora di lezione è diventata un’attività marginale, e invece è l’essenziale per l’insegnante, insegnare è l’essenziale, parlare ai propri allievi è l’essenziale.

È diventata l’attività subordinata a tutte le altre … compilare schede, compilare giudizi, compilare programmi, programmi preventivi, tutte quelle … come accade nella salute mentale, no? Io faccio supervisione in tanti servizi della salute mentale, e quello che noto è che magari il responsabile si interessa che la cartella clinica sia compilata bene – non importa se nel frattempo il paziente è morto – l’importante è che la carte clinica sia … ecco io penso che noi dobbiamo uscire da questa burocrazie e recuperare la radice del desiderio … che cosa ti ha portato a fare questo lavoro, esiste ancora la causa che ti ha mosso? E io penso che anche nel vostro lavoro questo rapporto dell’operatore con la causa, la causa che mi ha portato lì a fare questo, è ciò che mantiene vivo l’operatore

Gastaldi: bene ringraziamo Massimo Recalcati per questo incontro …

 

 

Catechesi anno 2013 - fra Luca Pozzi - Luigi Accattoli - Lorenzo Caselli

Catechesi anno 2014 - mons. Gero Marino

Catechesi anno 2016 - mons. Gero Marino - don Luciano - Arianna Prevedello - Raffaele Luise - suor Maria Gioia Riva - Gabriella Caramore - Serena Noceti

Catechesi anno 2017 - Massimo Recalcati - Enzo Bianchi