1 dicembre 2016 Evangelii Gaudium - sinodalità vuol dire che la verità è da cercare, non è già fatta. [ link sulla foto per il dettaglio della serata ] |
Una Chiesa in uscita secondo l’insegnamento della Evangelii Gaudium L’esortazione EG è il documento di papa Francesco che raccoglie i lavori e le indicazioni del Sinodo dei vescovi del 2012, che aveva come argomento “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”.
Essendo il primo documento totalmente attribuibile a papa Francesco, (l’enciclica “Lumen Fidei” firmata anche da papa Francesco è in realtà di papa Benedetto) esso ha il valore di documento programmatico del suo pontificato e lui stesso lo presenta come tale. Al convegno di Firenze di fronte alla domanda su cosa si dovesse fare, ha risposto: assumere la mentalità e attuare l’Esortazione Evangelii Gaudium. “Ciononostante, sottolineo che ciò che intendo qui esprimere ha un significato programmatico e dalle conseguenze importanti. Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno”. Come documento programmatico esso spiega quello che il papa sta facendo, dalle cose più piccole come le telefonate a casa delle persone, a quelle più clamorose come i suoi viaggi. Così sono comprese anche le sue parole di non giudizio sulle persone omosessuali e le sue aperture ecumeniche. L’agire del papa a sua volta è il criterio ermeneutico del documento papale: quando nella lettura ci viene da chiedere cosa intende il papa con queste parole, ce lo possiamo chiarire alla luce delle cose che fa. Come possiamo interpretare il pontificato di papa Francesco, qual è l’intento che lo muove? Forse dobbiamo dire che il papa fa le cose a caso o che segue semplicemente il suo carattere impulsivo. In realtà il papa ha un intento ben preciso che è: dare attuazione al concilio Vaticano II; è il primo papa che non era presente al concilio, ma è chiamato ad esserne l’attuatore. I suoi predecessori, pur dichiarando la loro volontà di essere papi conciliari, hanno costituito in parte anche un freno rispetto al Concilio. In modo particolare il documento Conciliare che maggiormente guida l’azione del papa è la “Gaudium et Spes”, la costituzione conciliare sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Il papa sta dando seguito al superamento della teologia Tridentina per dare corpo alla teologia del Vaticano secondo. La chiesa non è contrapposta al mondo come una società di perfetti di fronte al mondo immerso nel peccato. La Chiesa è in cammino nel mondo, (dove già ci sono dei semi del Verbo) ed è chiamata a vivere nel mondo di cui è parte come il lievito, il sale e la luce. La Chiesa contrapposta al mondo si sente cittadella assediata bisognosa di difendersi dal mondo, salvo alcuni generosi chiamati a fare incursioni nel mondo ostile per strappare prede al nemico e condurle alla Chiesa. La Chiesa lievito del mondo guarda al mondo con benevolenza, perché lo vede amato da Dio, vede i segni di bene già presenti e opera per far crescere il bene del mondo, che non necessariamente si realizza con l’entrare nella Chiesa. Vive il compito di rendere visibile e incontrabile l’amore. Il punto di partenza è la centralità della Misericordia come ciò che definisce l’essere stesso di Dio, e che come tale si è rivelato attraverso Gesù. “In realtà, il suo centro e la sua essenza è sempre lo stesso: il Dio che ha manifestato il suo immenso amore in Cristo morto e risorto. Egli rende i suoi fedeli sempre nuovi, quantunque siano anziani, riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi.” L’incontro con la misericordia è ciò che l’uomo cerca, ciò di cui ha bisogno, ciò che lo libera dalle diverse prigionie da cui si lascia ingabbiare. Approdare alla fede non è un aderire ad un insieme di verità che spiegano il mondo, ma è incontrare una presenza attraverso la quale lasciarsi raggiungere dall’amore. In questo amore riscoprire la propria dignità e di conseguenza fare esperienza di gioia. Nel documento del papa c’è una parola sorprendente quando presenta il rischio di una vita chiusa, risentita, egoistica, dice che :”Anche i credenti corrono questo rischio, certo e permanente”. C’è un modo di essere credenti che non è aver incontrato l’Amore. Chi ha fatto esperienza della misericordia di Dio non può fare altro che lasciarsi coinvolgere dal medesimo dinamismo e sentire il compito di essere segno, perché altri vivano attraverso di lui (o lei), l’esperienza che ha dato luce e senso alla sua vita. La Chiesa nasce proprio con questo compito, cioè come quella comunione di persone che hanno incontrato la misericordia e sono chiamate ad esserne segno nel mondo. La Chiesa è dunque per la missione. Una chiesa che si ripiega su se stessa non è la Chiesa di Gesù. Uscire per andare dove vive l’umanità è dunque l’essenziale per la Chiesa che vuole essere fedele alla propria vocazione. “Il bene tende sempre a comunicarsi. Ogni esperienza autentica di verità e di bellezza cerca per se stessa la sua espansione, e ogni persona che viva una profonda liberazione acquisisce maggiore sensibilità davanti alle necessità degli altri. Comunicandolo, il bene attecchisce e si sviluppa”. La dinamica missionaria fa perciò parte dell’essenza della Chiesa, essa riguarda tutti e non soltanto alcuni. Lo stile missionario deve dunque essere vissuto sia nella dimensione comunitaria che in quella personale. La chiesa in uscita riguarda tutti, maggiormente i laici, perché la loro condizione di vita nel mondo, già nella prospettiva dell’uscire, li porta a essere accanto agli uomini che ancora non hanno incontrato la luce del Vangelo dell’amore. Uscire per far cosa? La missione non consiste nel portare una dottrina o nell’insegnare dei valori, ma nel far fare esperienza di amore. L’amore non si racconta a parole, ma si dona facendo fare esperienza. La missione consiste nell’amare, non nel parlare di amore. “La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo”. Essere una comunità in uscita chiede di andare incontro alle persone, con il desiderio di far fare l’esperienza del bene, certo non tacendo l’eventuale denuncia di comportamenti di male, ma avendo la fiducia che lo Spirito genererà consapevolezze e desideri di conversione, come anche genererà il bisogno di approfondimento e di proseguire un più vivo legame con la chiesa. Il papa dice che non subito possiamo chiedere che vivano tutta la vita secondo i valori cristiani. Neanche dobbiamo avere l’ansia che vengano ad ingrossare le nostre file. “Tutte le verità rivelate procedono dalla stessa fonte divina e sono credute con la medesima fede, ma alcune di esse sono più importanti per esprimere più direttamente il cuore del Vangelo. Il Vangelo invita prima di tutto a rispondere al Dio che ci ama e che ci salva, riconoscendolo negli altri e uscendo da sé stessi per cercare il bene di tutti. Quest’invito non va oscurato in nessuna circostanza! Tutte le virtù sono al servizio di questa risposta di amore. Se tale invito non risplende con forza e attrattiva, l’edificio morale della Chiesa corre il rischio di diventare un castello di carte, e questo è il nostro peggior pericolo. Poiché allora non sarà propriamente il Vangelo ciò che si annuncia, ma alcuni accenti dottrinali o morali che procedono da determinate opzioni ideologiche.” Può essere facile capire cosa significa essere Chiesa in uscita di fronte a quelle persone che vivono nella povertà e nella condizione di emarginazione. Dico che è facile capire, non dico che è facile farlo. Sarebbe perciò già importante, per essere una parrocchia in uscita, generare esperienze di vicinanza alla povertà. Ricordo ad esempio quando i ragazzi della Cresima sono andati alla mensa dei cappuccini o hanno organizzato per la festa di S. Antonio il pranzo con i poveri. Più difficile capire come possiamo essere chiesa in uscita accanto alle persone che stanno bene e che apparentemente vivono una vita felice, che prescinde dalla ricerca spirituale. Abbiamo già occasione di vicinanza per quelle famiglie che chiedono di inserire i figli nel catechismo. Ci sono poi persone che incontriamo occasionalmente per la richiesta del sacramento del Battesimo dei figli o in occasione di un lutto. Si potrebbe pensare di offrire un incontro più comunitario, non solo quello col parroco. Penso che la prima via per essere parrocchia in uscita sia quella di darci uno stile più fraterno, più accogliente nei confronti delle persone a partire dalle celebrazioni liturgiche della domenica. C’è poi il capitolo dell’incontro occasionale con gli ospiti che per vacanza vengono nella nostra città. Essere in uscita ci potrebbe sembrare inutile perché ogni frutto dell’incontro sarà poi generato e vissuto altrove. Ma l’uscire, non è per ingrossare le file della parrocchia, ma per generare esperienze di bene in fedeltà al mandato di Gesù. “Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia”
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Quale volto di misericordia emerge dall’incontro con l’altro? conversazione di Gabriella Caramore - Opera Madonnina del Grappa - Sestri Levante – martedì 12 aprile 2016
Gabriella Caramore - conduttrice di “Uomini e profeti” - una trasmissione su Radio 3 molto seguita
Vi ringrazio tutti per essere qui, devo dire che è sempre molto piacevole venire qui in Liguria, perché trovo sempre un’accoglienza particolarmente calda, vivace, intelligente … ho sempre un riscontro molto positivo, molto buono. Arrivando terza, dopo i primi due incontri che avete fatto, immagino che moltissime cose siano state dette – avete avuto dei brillantissimi interlocutori, la Serena Noceti la conosco molto bene – inevitabilmente ripeterò alcune cose che hanno detto loro, ma voi non vi scomponete, mi fa piacere. Anche se mi avete chiesto un taglio laico (su questo mi sento abbastanza forte), penso che sia inevitabile partire dall’uso biblico della parola “misericordia”. Se noi realmente seguiamo un po’ la Bibbia, di lì emerge il taglio laico, che significa semplicemente “per tutti”.
“Misericordia” – questa parola che senso ha oggi? Per capire se questa parola ha un senso per noi, se la possiamo usare nella nostra pratica di relazione con gli altri … perché se ci pensate bene – va bene quest’anno misericordia con papa Francesco, abbiamo sentito molto questa sua invocazione alla misericordia – non tanto una parola che si usa nella contemporaneità, intanto perché le rimane addosso un’enfasi religiosa … non è che noi diciamo “ho misericordia per quella persona”, avrò compassione, solidarietà, il desiderio di aiutare, desiderio di perdonare, ma misericordia è una parola che viene un po’ dal contesto religioso, e lì è un po’ confinata, in un certo senso giustamente. Da una parte la sentiamo allusiva a un intervento dall’alto – la misericordia chi la può avere? Qualcuno che sta più in alto – diverso invece è compassione, solidarietà, soccorso . per elargire misericordia verso qualcuno bisogna sentirsi un po’ più in alto. Oggi è anche difficile che tra i credenti … – sicuramente nelle vostre preghiere chiedete misericordia – oggi è un sentimento diffuso che non ci si aspetta più tanto la salvezza dall’alto o dall’altro, perché è così, e già i primi apostoli peraltro si erano accorti che la salvezza non veniva, che non veniva quella salvezza che avevano pensato, e ne avevano dovuto elaborare un’altra. Piuttosto siamo inclini a consolarci sulla Terra, di essere eventualmente soccorrevoli nel confronto col prossimo, avendo dei sussulti di fiducia che ci convincano che esiste anche una capacità umana di venire incontro al prossimo, di convertire l’ostilità in compassione, l’inimicizia in gesti di concordia, la pulsione aggressiva che tutti noi abbiamo in cura delle cose e delle persone che ci stanno intorno, riportando quindi entro i termini dell’umano un’azione almeno di salvaguardia delle persone, se non di salvezza … perché non è che noi possiamo dare salvezza a qualcuno, l’aspettiamo sì, però il mondo è anche deluso da questa attesa di salvezza … il novecento è stato un secolo che ha sperato, ma di salvezza ce n’è stata poca.
“Misericordia” – nel contesto della Bibbia Questa parola “misericordia”, almeno nella nostra lingua, poi rapidamente vedremo anche la sua origine … oggi noi non diciamo miseri, diciamo i poveri, gli sfruttati, i vinti, i prigionieri, i rifugiati, i profughi … non diciamo i miseri perché dentro l’idea del misero c’è l’idea di infelicità, e c’è biblicamente anche l’idea di colpa. Nei salmi si invoca tantissimo la misericordia di Dio, ma chi invoca la misericordia di Dio? Intanto chi è caduto in povertà, chi è caduto nella malattia, chi è preda di nemici spietati … tu vedi l’affanno e il dolore, li guardi e li prendi nelle tue mani, a te si abbandona il misero, dell’orfano tu sei l’aiuto, oppure la mia voce verso Dio perché mi ascolti, nel giorno della mia angoscia cerco il Signore, Signore Dio della mia salvezza davanti a te grido giorno e notte. Misero è chi è caduto in una situazione di miseria, di sventura, ma misero è anche colui che ha commesso delle colpe. Io facevo e si logoravano le mie ossa mentre ruggivo tutto il giorno, e ho fatto conoscere il mio peccato, non ho coperto la mia colpa, ho confessato al Signore le mie iniquità e Lui ha tolto la mia colpa. Misero è anche il colpevole, e allora capite che la cosa qui si complica. Pietà di me o Dio nel tuo amore, la tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Abbiamo di fronte due categorie di miseri: chi è caduto nella sventura e chi è caduto nella colpa. L’invocazione che viene rivolta al Dio della misericordia è una parole di compassione per chi rimane abbandonato da tutti, anche perché ha commesso delle colpe. Allora noi come ci rapportiamo noi a questa parola? Come ci rapportiamo al colpevole e allo sventurato e all’infelice? Per una conquista di un orizzonte più terreno, la parola misericordia possa riscoprire una sua forza di convinzione. Nella parola misericordia non c’è soltanto il misero, ma c’è il cuore che è un organo pulsante.
“Misericordia” – una possibilità per l’umanità Allora, che cosa vuol dire avere misericordia? Non è più soltanto l’attesa di una misericordia dall’alto, ma gettare il proprio cuore dalla parte del misero, gettare il proprio cuore accanto alla miseria dell’altro, metterlo vicino ai miseri, farlo partecipe dell’infelicità altrui, cercare di volgerla – so non proprio in felicità – in una condizione almeno accettabile di vita. Laddove la solitudine non sia una solitudine assoluta, la povertà non sia una povertà estrema, il dolore non disperato, e la speranza non sia vinta del tutto. Parlare di misericordia non ha senso se non si mette in gioco il proprio cuore. Nel primo Libro dei Re, quando Salomone chiede al Signore – lui uomo giusto, qualunque cosa tu vorrai io te la darò – dice “donami un cuore che ascolta, perché io sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male”. Un cuore che ascolta e un cuore sensibile a chi è preda di indigenza, di paura. Un grido che talvolta neanche sentiamo, ma che comunque c’è. Uscire dalla nostra pigrizia, la media delle persone ha una pigrizia molto forte, ci facciamo vincere dalla nostra pigrizia del cuore. Invece, fare uscire dalla pigrizia, dai propri tepori, dalla propria situazione in cui viviamo, spingersi nella direzione di un altro, ecco … inventare un coraggio – il coraggio è una virtù del cuore, coraggio nasce dal cuore, è il cuore che si getta – per nuovi gesti, nuovi pensieri capaci di spezzare l’ostinazione degli automatismi nei quali siamo imbrigliati. Gettare il cuore dalla parte dei miseri significa agire in favore, non significa necessariamente dare una salvezza, che non sta in noi dare, ma agire in favore dei vinti. E qualora non sia possibile fare qualcosa, perlomeno, comunque, stare dalla loro parte, dichiarare che si è dalla loro parte, vivere il dolore accanto alla vittima, anche se non possiamo risolvere quel dolore, viverlo accanto, sperare con gli ultimi ciò che no è umanamente sperabile. C’è un pensiero di Eraclito, che mi piace sempre tantissimo “chi non spera l’insperato, non lo troverà”. Si deve sperar qualcosa che non si deve neppure arrivare a sperare, perché la speranza è questa.
“Misericordia” – il volto materno di Dio Oltre ad avere questo sapore antico, la parola misericordia ha assunto nei secoli – e giustamente anche – un volto materno, e con ragione, perché nelle scritture ebraiche … certamente c’è Dio padre, il Dio della giustizia, il Dio della vendetta, ma sono tantissime le immagini materne usate per indicare il Signore: “ascoltatemi casa di Giacobbe e tutto il resto della casa d’Israele, io vi ho portato fino dal mio seno materno, fin dal grembo”, oppure dice il profeta Isaia “si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere”, “anche se costoro si dimenticassero, io non ti dimenticherò”. Ci sono tutte queste immagini materne per indicare questo Dio terribile. Se pensiamo alla parola ebraica con cui traduciamo misericordia – il greco più o meno è lo stesso -, ci sono almeno due espressioni fondamentali, una è “hésèd” grazia, fedeltà, e un’altra proviene dalla radice “rahamin” che significa viscere, addirittura utero – utero di misericordia del nostro Dio – perché quel Dio è immaginato come qualcuno o qualcosa che visceralmente ama la sua creatura, come una madre ama la sua creatura. E allo stesso modo, la stessa radice è presente nel Corano: quando si sente dire “Allah è talmente misericordioso” è in questo senso, è nel senso di qualcuno che visceralmente ama la creatura.
“Misericordia e Giustizia” – “Giustizia e Misericordia” Per capire bene la parola misericordia, per capire che uso possiamo farne oggi, occorre mettere a fuoco un altro tema, decisivo per capire cosa sia misericordia in ambito biblico, e dunque l’uso che oggi noi ne possiamo fare. La misericordia è spesso nominata accanto alla giustizia, però è come che si ritraessero i due volti del Signore, uno giusto e quindi terribile, che condanna, che punisce, che si vendica, e l’altro misericordioso, che è quello che perdona, che accoglie, soccorre, si muove a pietà, salva … spesso ci sono stati presentati come due aspetti contrapposti: c’è la giustizia, e c’è la misericordia. L’impressione è che giustizia e misericordia, invece di essere due aspetti contrapposti, sono legati molto strettamente, più di come possa sembrare. In primo luogo non si tratta di due tensioni equamente suddivise, è vero che nella Bibbia si parla molto di più del Dio della vendetta – questo va capito un po’ storicamente – come si può fare per salvare un piccolo popolo sperduto, in mezzo a popoli grandi, dominatori, se non dandogli delle armi – sono società arcaiche, dobbiamo capire che è un linguaggio arcaico quello della vendetta per fare giustizia – però è anche vero che la misericordia sopravanza sempre la giustizia. Quando Dio parla a Mosè che ha spezzato le prime tavole della legge e gli dà le seconde tavole … “Dio, Signore Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che perdona la colpa e la trasgressione del peccato e conserva il suo amore per mille generazioni, ma non lascia senza punizione e castiga la colpa dei padri e dei figli fino alla terza e alla quarta generazione”. Allora, il castigo è fino alla terza e alla quarta, la misericordia e il perdono sono fino alla millesima. Nonostante tutto quel linguaggio che è una vendetta che serve a ristabilire giustizia, in realtà il perdono è fino alla millesima generazione, la giustizia fino alla terza, alla quarta. Non dobbiamo lasciarci tanto impressionare da questo corredo inevitabile di manifestazioni di ira, di vendetta, di violenza, anche di crudeltà, che sono necessarie per la realtà così ruvida, aspre, dell’epoca antica … però orientata anche decisamente nel soccorso dei deboli, degli inermi, dei vinti, e alla possibilità per chiunque di convertire il suo cuore – hai peccato, ma puoi convertire il tuo cuore, puoi cambiare, ti posso perdonare fino alla millesima generazione. Tutti quanti abbiamo presente il canto di Maria nel Magnificat, ma andiamo un po’ più indietro nel libro di Samuele dove troviamo praticamente lo stesso canto, lo stesso inno, che però messo lì ha un accento diverso. Messo in bocca a Maria – per tutta la tradizione tramandata – la figura dolce, materna – tutto vero per carità – ma anche Maria nel Magnificat, nel vangelo di Luca dice delle parole molto dure “hai innalzato gli umili, hai abbassato i potenti”, cioè il rovesciamento dell’ordine del mondo. Questo bellissimo canto di rovesciamento lo troviamo già nel primo libro di Samuele, quando sua madre – una delle tante donne sterili della Bibbia, non sopportava questa sterilità - invoca il Signore per avere un figlio, il marito con atteggiamento molto moderno, la consola, le dice non importa, non fa niente, non la rimprovera … Finalmente il Signore è vinto dalle sue preghiere, e lei gli rivolge un canto di ringraziamento e di lode per la giustizia che egli manifesta, non solo nei confronti di una povera donna sterile, ma nel confronto dei poveri del mondo.
“Misericordia e Giustizia” – il Magnificat del primo libro di Samuele Vedete come c’è subito questa solidarietà, la povertà individuale, la povertà degli altri, la povertà del popolo. È molto utile ricollegare il canto di Maria a questo canto antico, per toglierlo da un’enfasi un po’ troppo sentimentale, per ridargli quel valore di forza, di virulenza … "Il mio cuore esulta nel Signore, la mia forza s'innalza grazie al mio Dio. […] Non moltiplicate i discorsi superbi, dalla vostra bocca non esca arroganza, perché il Signore è un Dio che sa tutto e da lui sono ponderate le azioni. L'arco dei forti s'è spezzato, ma i deboli si sono rivestiti di vigore. I sazi si sono venduti per un pane, hanno smesso di farlo gli affamati. La sterile ha partorito sette volte e la ricca di figli è sfiorita. Non è bella a un orecchio moderno questa vendetta … capite, in un certo senso, in un linguaggio arcaico è necessario ristabilire giustizia Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire. Il Signore rende povero e arricchisce, abbassa ed esalta. Solleva dalla polvere il debole, dall'immondizia rialza il povero, pensate com’è forte questa immagine “dall’immondizia rialza il povero” per farli sedere con i nobili e assegnare loro un trono di gloria. Queste parole le troviamo quasi identiche nel canto di lode di Maria al Signore, quando la sceglie, umile ragazza di Israele per renderla madre di un uomo destinato “non a cambiare le sorti del mondo”, perché le sorti del mondo non sono cambiate, come abbiamo visto, ma “una prospettiva sì”, a cambiare una prospettiva del mondo, e questo è già molto, è già qualcosa. In entrambi i casi questo capovolgimento dell’ordine del mondo, con questo eccesso tipico del linguaggio antico, va nella direzione di un rovesciamento dell’ordine delle cose così come sono, per innalzare gli umili e ricolmare di beni gli affamati, ricordandosi della sua misericordia. Vedete il discorso misericordia-giustizia? Che cosa muove questo impeto di giustizia che abbiamo sentito in queste parole, se non il desiderio di misericordia? E che cosa muove questo desideri di misericordia, se non la giustizia? Credo che dobbiamo pensare molto di più alla giustizia, parlando di misericordia. Che misericordia è possibile, se non attraverso un tentativo almeno di restituzione alla vittima di rispetto, un’offerta di dignità, quando non è possibile il risarcimento per chi ne è rimasto privo fino a quel momento? Il papa parla molto di misericordia, e credo che il suo discorso sia rivolto anche alla misericordia nella Chiesa per cercare di pacificare un po’ molte tensioni che esistono fra le tante differenze, però quante invettive di giustizia gli sentiamo pronunciare, certo non contro il povero peccatore che cade – tutti cadiamo – ma contro i corrotti, contro i tenaci nell’ingiustizia, contro i tenaci nella malvagità. Quante volte lo sentiamo parlare contro la corruzione! E però non è anche lì un altro aspetto, la misericordia che misericordia è se non tenta di portare giustizia? Certo qui non si parla di misericordia e perdono per i tracotanti – i politici, i potenti nella Chiesa, i potenti in ogni situazione istituzionale, i potenti ovunque, i corrotti, gli usurpatori, i violenti – e anche Gesù non prevede perdono e misericordia per chi non ha sguardo per i miseri del mondo. È chiaro che i vangeli ci raccontano tante parole anche contrastanti, come la Bibbia, tante parole contrastanti anche di Gesù … Il grande discorso escatologico della fine del vangelo di Matteo, lì c’è una separazione nette, non tra il povero peccatore, ma tra coloro che si sono rifiutati di guardare il fratello, di guardare chi sta accanto, coloro che si sono rifiutati di dare soccorso, di dare da mangiare, di dare da bere, di dare da vestire, di dare casa, di consolare i prigionieri. Dopo aver premiato i giusti che hanno dato da mangiare, da bere, accolto, vestito, visitato gli affamati, gli assetati, gli stranieri, gli ignudi, gli stranieri, lancia l’invettiva contro gli ingiusti – e non sono mica parole tenere, sembrano parole dell’Antico Testamento, certo Matteo è il più ebro tra gli evangelisti … - sono parole messe in bocca a Gesù, nessuno le ha smentite, nessuno le ha tolte “via lontano da me, maledetti, a fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. Allora anch’essi risponderanno Signore ma quando ti abbia visto così e non ti abbiamo soccorso, allora Egli risponderà loro in verità vi dico tutto quello che non avete fatto ed uno di questi più piccoli non l’avete fatto a me”. Non c’è nessuna differenza, in un certo senso, tra soccorrere il Signore Gesù e soccorrere l’ultimo dei poveri. “E se ne andranno, questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna”. Quindi vedete anche qui quanto conta la giustizia. La giustizia non la dobbiamo intendere in un senso meramente punitivo, non dobbiamo pretendere di vendicarci, non ci deve importare neanche che i malvagi vengano puniti, se non messi in condizione di non nuocere, ma di che cosa si tratta invece? Ma di mostrare con chiarezza quale sia la via da seguire. Qual è l’urgenza, qual è la priorità che chiede la nostra vita? Chiede di vivere nella comunità umana. Evidentemente non si tratta di restituire il male con il male, ma in primo luogo il bene va portato a chi è in sofferenza. Invece ai corrotti, a chi ha inferto quel male – naturalmente vanno messi nella condizione di non nuocere – a loro va mostrato che un’altra strada è possibile, va mostrato che si può non fare così, è possibile fare in un altro modo … si convertiranno? Non lo possiamo sapere, naturalmente è sempre un rischio, un azzardo, ma aprendo una strada di umanità, si apre anche la possibilità di strade nuove, per chi ha avuto fino a quel momento uno sguardo velato dalla cupidigia, dall’egoismo. Ne vediamo tanto intorno, vediamo i potenti che non vogliono vedere, non vogliono vedere queste masse che si precipitano, questi profughi che camminano, che si aggrappano alle reti come animali e gridano “ma noi non siamo degli animali”, no li mandano indietro perché ci siamo prima noi – ma cosa vuol dire questo? – allora gli va mostrato, ma mostrato in primo luogo soccorrendo, facendo tutto il possibile per soccorrere chi è nella sventura. E questo è l’unico modo per aprire la possibilità di uno sguardo diverso anche per i peccatori. Questo è l’unico modo per usare misericordia anche per i peccatori. La misericordi per i peccatori non può essere “ego te absolvo”, vuol dire “si può fare in un altro modo, e questo è possibile”. Con questo non sto indicando una via apolitica, naturalmente. ma una pratica possibile a ciascuno di noi. |
Il volto misericordioso della Chiesa oggi Conversazione di Serena Noceti a San Bartolomeo della Ginestra – giovedì 3 marzo 2016
I fondamenti della mia riflessione Buona sera a tutte e a tutti e grazie soprattutto della possibilità di riflettere stasera con voi su un tema così centrale per il Giubileo e il cammino della Chiesa intera. Come già veniva detto introducendo l’incontro, ho pensato di proporvi una riflessione articolata, che trovate anche sul foglietto che è stato distribuito, e poi lasciare uno spazio per il nostro dialogo, per la nostra ricerca comune. Come cercherò di dimostrare, la misericordia non è solo e soltanto un atteggiamento che noi sviluppiamo davanti agli altri, ma chiede di essere incarnata in uno stile, in una forma di Chiesa, anche in strutture ove vivere il nostro percorso di incontro e formazione, che sono segnati da questo tratto, e quindi ci vedono tutte e tutti partecipi. Vorrei cominciare questa riflessione prendendo però le parole di Giovanni XXIII, le prime parole che aprono il primo giorno del Concilio, quando l’11 ottobre 1962 – sono passati più di 50 anni ormai – Giovanni XXIII così si esprimeva: «La sposa di Cristo, la Chiesa, preferisce oggi fare uso della medicina della misericordia, piuttosto che della severità». In fondo il Concilio si apre esattamente con quel sogno, con quella prospettiva di un volto misericordioso di Chiesa, che Giovanni XXIII segnalava a coloro che ascoltavano, ai vescovi a Roma per l’inizio del Concilio, proprio come la prospettiva necessaria: la medicina della misericordia. E queste parole sono quelle che oggi risuonano con estrema forza nell’insegnamento che papa Francesco ci sta dando. Se dovessi indicare una parola chiave, che continuamente risuona nelle parole, nelle scelte di papa Francesco, quella della misericordia è veramente quella più forte e significativa. E se dovessi dire la parola chiave della sua esortazione “Evangelii Gaudium”, ancora una volta, assieme alla parola vangelo metterei la misericordia, un vangelo di misericordia e della misericordia. E so che già avete cominciato ad approfondire questo tema nel primo incontro che avete fatto con tratto di natura più biblica. Questa sera vorrei concentrami su quale è la sfida per una Chiesa oggi, che voglia declinare il suo volto, la sua prassi, le sue scelta a partire da questa parola impegnativa che è la misericordia. E lo farò in particolare facendo riferimento a papa Francesco, soprattutto perché il documento “Evangelii Gaudium” che ho or ora indicato è un documento che nel volere del papa – lo dice subito al numero 1 – è un documento programmatico, è il programma per il suo pontificato. E questo in documento ritorna la bellezza di 35 volte la parola misericordia, quindi è proprio il punto focale che ci viene consegnato. E quando il papa parla della Chiesa declina subito “Chiesa e volto della misericordia”, tanto è vero che al numero 114 così dice: «La Chiesa deve essere il luogo della misericordia gratuita dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati, incoraggiati a vivere la vita buona del vangelo». In fondo, le parole che cercherò di dire questa sera non sono che una esplicitazione di questo passaggio, di questo aggettivi, di questo sguardo, di questo volto. Una Chiesa che ti permette di essere e sentirti accolto, amato, perdonato, incoraggiato a vivere una vita buona e una vita felice, perché la sfida alla fine si giocherà attorno a questi quattro participi, questi quattro verbi.
La novità del messaggio e della prassi di papa Francesco E lo faccio però immediatamente ricordando la natura di questo documento “Evangelii Gaudium”, che spero abbiate letto tutto o in parte. C’è il fatto che è un documento programmatico che il papa sceglie di consegnarci – a mio parere – non isolando da tutto il resto delle sue azioni. Perché questo documento, a differenza di tanti altri documenti ministeriali dei diversi pontefici, non può essere compreso se lo si isola dai gesti che il papa sta facendo in questo inizio di pontificato, in questi 3 anni di pontificato. In fondo tutto il pontificato di papa Francesco è una continua serie di gesti di segni, che interrompono la prassi abituale, le attese, ciò abitualmente abbiamo considerato lo stile proprio del vescovo di Roma, del pontefice. Una interruzione, una sorpresa che contraddistingue continuamente le parole di questo pontificato che spinge ciascuno di noi a chiedersi “perché?”. In fondo vedo la “Evangelii Gaudium” come il testo che vuole offrire una motivazione, una ragione e un orientamento alla nostra azione di Chiesa, a partire però da una prassi nuova che in qualche maniera, come tratti di misericordia, è stata consegnata alla Chiesa. In fondo parole, prospettive, gesti altri rispetto a ciò cui siamo stati abituati negli ultimi anni, è quello che segna questo documento.
È difficile lasciare le vecchie abitudini Dall’atra voglio dire anche chiaramente che nell’ultimo anno – lo vediamo sulle pagine dei giornali, sui social network, attraverso interviste – si stanno sollevando numerose resistenze davanti al pontificato di papa Francesco, che viene accusato di essere ingenuo, troppo accomodante dal punto di vista Ecumenico e così via. Ma se leggiamo attentamente gli interventi di coloro che si oppongono davanti, o forse più spesso dietro le quinte, ci accorgiamo che tutti gli interventi di resistenza o di critica radicale hanno a che fare con la misericordia, hanno a che fare soprattutto con quel tratto della misericordia gratuita che dà a tutti sempre una nuova chance, cha papa Francesco sta continuamente rilanciando. Che cosa c’è che resiste dentro di noi? E qual è la fida oggi a essere Chiesa della misericordia? In un papato dai tratti indubbiamente insoliti per la sorpresa, per l’interruzione, per il linguaggio, noi ci troviamo davanti a un documento che ci esorta continuamente a riconsiderare i percorsi, ma soprattutto le ragioni per avere misericordia, essere soggetti di misericordia. Ma vedremo ancora di più, ci esorta a considerare questi elementi, perché ci chiede di riconoscerci come oggetto e destinatari della misericordia di Dio. Ora i fatti questo lo hanno sempre detto, la “Dives in misericordia” di Giovanni Paolo II, un documento ormai del secolo precedente al nostro aveva già affermato questo con estrema lucidità. Perché però ci sentiamo così interpellati? Indubbiamente l’evento Giubilare ci aiuta in questo senso e non rappresenta tanto una riflessione sulla misericordia, ma una sollecitazione a vivere e incarnare la dinamica della misericordia.
Radici bibliche del Vaticano II Però questa sera vorrei cercare di comprenderne le radici bibliche, soprattutto comprendere cosa questo comporta per la nostra conversione personale e per la nostra riforma di Chiesa. Lo faccio indicando subito che ciò che papa Francesco dice in realtà non è una estrema novità. Non è una novità perché il papa riprende sostanzialmente la visione di Chiesa del Vaticano II. Quindi se andate a leggere il documento e tutto ciò che ha detto in questi 3 anni, non trovate niente di radicalmente nuovo rispetto al Vaticano II. Quello però che è radicalmente nuovo è la revisione, la visione ripresa, riconsiderata, espressa in parole nuove, in un contesto nuovo e con una sensibilità nuova, che unisce coscienza agita, segni e scelte del papa con quello che è il linguaggio che questi documenti ci propongono. Allora, di per sé la visione di Chiesa è quella del Vaticano II, è una relativa novità quella di papa Francesco, ma quello che è nuovo è il contesto, la collocazione, la prospettiva. Infatti il messaggio del papa ci giunge attraverso una ripresa del Vaticano II, che è letta soprattutto alla luce della esperienza latino-americana, che è l’esperienza argentina in particolare, cioè di un episcopato che ha fatto della scelta di essere presenti ai poveri, a coloro che sono stati perseguitati durante la dittatura militare, a coloro che sono stati oggetto e hanno sperimentato politiche economiche disumanizzanti e distruttive, come quelle dell’Argentina – il suo default ha fatto scuola – che il papa ha sperimentato come vescovo di Buenos Aires in prima persona. Allora abbiamo e riaccogliamo il dettato del Vaticano II attraverso l’esperienza di una Chiesa, una Chiesa che ha scelto la misericordia nella forma di un aiuto e di sostegno nel confronto di coloro che sono stati privati della libertà o della possibilità di una vita dignitosa e umana. E l’altra cosa che colpisce leggendo la “Evangelii Gaudium” è, proprio nel modo di avvicinare la misericordia, che il papa ricupera delle pagine che sembravano dimenticate nella epoca post conciliare. La stessa espressione di “popolo di Dio”, che sembrava essere stata marginalizzata nel contesto della chiesa italiana. Nei piani pastorali degli ultimi 50 anni i vescovi italiani usano la parola “popolo di Dio” solo due volte in 50 anni nei documenti ufficiali. Recupera la parola “Chiesa povera” che c’è nei documenti del Concilio (n° 8 della Lume Gentium). Ma anche qui la chiesa italiana, a differenza della chiesa americano-latina usa questa citazione una volta sola in 50 anni. Quando si fa, si scrive un documento - non dico la Caritas ma il progetto generale della CEI – quando scrivono un documento sul sostegno economico, sulla gestione dell’8 per 1000 per il sostegno della chiesa italiana. È l’unica volta in cui nei documenti generali della CEI, ad eccezione della Caritas, si usa l’espressione “Chiesa povera” facendo riferimento al n° 8 di “Lumen Gentium”. Certo, il papa ci sta rilanciando delle parole che nel Concilio sono presenti. Il papa recupera la lettura del segno dei tempi. Cioè la lettura del venire di Dio, del suo regno nella nostra storia, e ci segnala che cosa questo implica per la vita. È nuovo, però è presente nei documenti del Vaticano II, la chiesa latino-americana ha mantenuto questo, la chiesa italiana no. La chiesa italiana per lungo tempo ha iniziato i suoi documenti con una specie di “cahier de doléance” di tutti gli elementi negativi, e non già della presenza di Dio all’opera nella storia, oppure ha iniziato con una elencazione di criteri astratti da cui dedurre. Quindi uno stile di Chiesa, una riflessione sulla Chiesa, si può continuare su questi temi che non è nuova, ma relativamente nuova. Il tema della misericordia non solo è già incluso nelle pagine del Nuovo Testamento, ma è espressamente accolto e prospettato nella nuova visione di Chiesa che il Vaticano II ci è andato consegnando e consegna nei diversi documenti. Ma soprattutto papa Francesco ci sta sollecitando a recuperare del Vaticano II un punto chiave, che è “ritornare al principio”. La Chiesa è fatta di tante realtà: dal papa, l’eucaristia, i sacramenti, la pastorale giovanile, la Caritas, i diaconi, la catechesi, l’ascolto della parola, tutti. Di tanti elementi uno però ricopre lo statuto, e ha lo statuto di principio costitutivo basilare, primo e primario, e questo principio è l’annuncio del Vangelo.
Un po’ di storia Il papa ritorna alla intuizione chiave del Vaticano II, ritornare al principio, tra tanti elementi, per poter dare alla Chiesa la sua forma più adeguata al tempo in cui viviamo e per realizzare e comprendere in forma nuova la missione. Per secoli l’ecclesiologia, l’interpretazione della Chiesa si è concentrata sul principio di autorità. Fino al Vaticano II il principio interpretativo è stato individuato sostanzialmente nel principio di una autorità delegata. Nella catechesi – ho quasi 50 anni – la catechesi di molti, molti di noi, la dottrina come si diceva quando ero piccola, andando alla dottrina ti veniva spiegato che Gesù ha fondati la Chiesa, ha dato la sua autorità, il suo potere a Pietro e agli altri apostoli che l’hanno trasmessa via via fino al vescovo, al parroco e così via. Questo principio si fondava esclusivamente sulla scelta di Gesù e sull’idea che la Chiesa è tale in ordine a un principio costitutivo, necessario da mantenere attraverso il tempo. Questa ecclesiologia ha retto nella Chiesa cattolica per almeno 1000 anni. Quindi aiutando a comprendere l’esperienza ecclesiale in un contesto tutto di società cristiane, tutti nascevano e venivano battezzati, in cui l’appartenenza ecclesiale cattolica era un dato assolutamente ovvio. Nel momento in cui le persone, tra la fine dell’800 e inizio ‘900 cominciano a mettere in crisi questa appartenenza tradizionale si avverte che il modello, dato dal Concilio di Trento in particolare, di parrocchia e di vita ecclesiale veniva piano piano a sgretolarsi. Il mondo operaio si allontana sempre di più, processi di secolarizzazione sono sempre più evidenti, l’appartenenza ecclesiale sempre meno significativa per la vita delle persone. Il Vaticano II si pone esattamente questa questione, e quindi scegli di ritornare, tra tante realtà, al principio generatore della realtà ecclesiale, e porta con i documenti del Concilio, la “Lumen Gentium” il documento sulla Chiesa, la “Dei Verbum” il documento sulla divina rivelazione, a porre al centro di tutto ciò che c’è di essenziale, che è il principio dell’annuncio, il Vangelo annunciato, la proposta della fede, la comunicazione della fede.
Cosa è la Chiesa Cosa c’entra con la misericordia? Il principio che fa sussistere la Chiesa è il Vangelo di Gesù, e al cuore del Vangelo di Gesù, come avete avuto modo di vedere nell’incontro scorso, nel capitolo 15 di Luca in particolare, sta al centro l’annuncio della misericordia. Gesù, annunciando per le strade della Palestina il Vangelo, nella Galilea, nella Giudea, il vangelo del regno ha compiuto banchetti nei quali erano presenti pubblicani, peccatori, prostitute, coloro che secondo la legge, secondo gli usi del tempo, l’interpretazione del tempo, non avrebbero avuto alcun “diritto” ad essere presenti. E se il banchetto è il segno del regno di Dio, il segno della venuta e del realizzarsi del progetto di Dio, Gesù ne parla con le parole, ma allo stesso tempo ne parla attraverso i segni e i gesti che va compiendo. Il gesto più importante è chiamare a banchetto non solo i bravi, i perfetti, i buoni, ma chiamare al banchetto tutti. Allora, una logica di misericordia è una forma di inclusività e chiamata al regno, è basilare per la vita e l’annuncio di Gesù. La Chiesa perché esiste? Noi esistiamo fondamentalmente per mantenere attraverso i tempi, attraverso le generazioni, finché il Signore ritornerà, uno e un solo messaggio, la memoria di Gesù che ha chiamato tutti a banchetto. Allora il rapporto tra la Chiesa e la misericordia non è un rapporto esterno, accidentale, che può esserci o non esserci, opzionale, ma un rapporto basilare. Se la Chiesa nasce, vive, viene generata e si rigenera, viene formata e si riforma alla luce del principio della comunicazione della fede, perché questo è il prima di tutto, se questo è il principio basilare, al cuore del principio dell’annuncio sta un contenuto preciso e discriminante: questo contenuto è il vangelo della misericordia. Allora la relazione tra vangelo e misericordia, il principio della fede, l’annuncio della fede, è un legame assolutamente costitutivo. Papa Francesco sta semplicemente ribadendo quello che il Vaticano II ha chiaramente detto: si deve ritornare a pensare una riforma radicale nella Chiesa a partire da ciò che nel principio generatore, la linfa vitale, il principio dell’annuncio del vangelo, ma nel vangelo sta la parola misericordia.
Il tema della serata: “Il volto misericordioso della Chiesa oggi” Quello di cui parliamo stasera non è semplicemente quello su cui mi avete indicato a riflettere, non è qualcosa di estrinseco, di opzionale, di marginale per la vita ecclesiale, ma tutte le parole, tutti i segni, tutte le scelte che la Chiesa fa devono essere segnate, ispirate, qualificate dalla bontà e dalla misericordia, se no la Chiesa perde di vista il suo principio generatore, e perde di vista in maniera assoluta la sua identità specifica. È la relazione costitutiva, perché noi non esistiamo se non per mantenere nel tempo e in diversi luoghi un annuncio di misericordia. E questo annuncio per troppo tempo lo abbiamo portato con le parole, ma lo stile di Chiesa, la forma delle relazioni ecclesiali, le scelte portanti, non sono state ispirate immediatamente alla misericordia, ma più spesso alla logica di una autorità, dell’organizzazione, della struttura, ma poco abitate da questa forza, da questa capacità trasformativa che il vangelo della misericordia portato da Gesù ha in sé. Allora si tratta di agire il vangelo della misericordia e come Chiesa lo facciamo fondamentalmente in due modi: da un lato con le parole, da un lato con ciò che siamo e ciò che facciamo. Se il vangelo della misericordia è un vangelo al centro le nostre parole devono essere tutte parole che indicano, che trasmettono, offrono misericordia in atto, senso della misericordia. E per parole di Chiesa non intendo solo le parole delle omelie, dei documenti ufficiali che vengono prodotti, i documenti del magistero dei vescovi eccetera, eccetera o dei capitelli come stiamo facendo questa sera, ma penso a tutte le parole che i cristiani “cristiani” nei diversi luoghi di lavoro, le case, nella vita quotidiana, con gli amici, nel tempo libero, in piscina, possono permettersi di offrire e di dire agli altri come parole di misericordia. Perché il volto della Chiesa non è solo il volto dei preti, dei vescovi, di chi fa documenti, del papa stesso, ma è la parola, l’annuncio che passa attraverso le nostre vite. Allora un elemento chiave è che tutte le nostre parole nell’annunciare la fede e nel rendere ragione della nostra appartenenza alla comunità ecclesiale siano parole segnate dalla misericordia, in modo tale che tutti coloro che tentano di essere come i pubblicani di Gesù, i pubblicani, le prostitute, i peccatori pubblici, e pensano di essere lontani dalla misericordia di Dio perché per anni, per secoli, la Chiesa è stata rigida e dura nell’esporre giudizi sulla vita di queste persone, queste persone che si sentono una catechesi o una predicazione non adeguate, lontane dalla vita di Dio, dalla vita della Chiesa, possano ritrovare fiducia e comprendere che il vangelo è a loro diretto, come a tutti gli uomini e tutte le donne. Sono parole che la Chiesa è chiamata a dare come parole di misericordia, quindi bisogna rivedere il nostro linguaggio, il nostro annuncio, ma direi sono parole che la Chiesa deve sentire anche come rivolte a se stessa. Perché dobbiamo avere coscienza tutti e tutte, dal papa all’ultimo cristiano, del bisogno di misericordia che segna le nostre vite. Tutti vogliamo sperimentare un contesto ecclesiale nel quale questa esperienza della misericordia è possibile e reale. Quello che colpisce girando per l’Italia, nelle diverse diocesi, nelle parrocchie, è la percezione che questa parola della misericordia è una parola attesa da tante persone, e che anzi, un volto di Chiesa duro e giudicante aveva escluso molto o allontanato molti, non solo giovani, ma anche persone adulte. Dobbiamo essere segno di misericordia i tutto ciò che siamo come realtà ecclesiale, nei sacramenti, l’eucaristia – lo sapete – è anche pane del cammino per coloro che vivono la situazione della difficoltà e della lontananza, la fatica della vita, ma soprattutto le nostre relazioni ecclesiali dovrebbero essere segnate, animate da un tratto di misericordia che purtroppo non sempre è nella vita della parrocchia, nella vita della chiesa, come andiamo sperimentando. Un passo in più: se questo valeva da sempre per sempre, se questo il Concilio lo ribadisce, noi seguiamo la misericordia con le parole, essendo un segno significativo, con uno stile di vita di relazione che incarna la misericordia in tutte le scelte, il papa ribadisce un ulteriore elemento chiave: questo deve avvenire nell’oggi di questa storia, nella quale la misericordia sembra avere poco diritto di cittadinanza, in cui le testimonianze di una vita vissuta secondo la misericordia sono rare. So che è venuta qui Agnese Moro la settimana scorsa … Questa realtà va letta in questo contesto di persone che si riconoscono maggiorenni, mature, adulte, in un contesto in cui il modello antropologico, cioè il modello di essere umano che viviamo è fondamentalmente incentrato su di sé, narcisista, in cui è mutato il rapporto tra culture, in cui disuguaglianza e giustizia sono ben chiare e segnano le nostre vite personali e collettive. Cosa vuol dire annunciare, cosa vuol dire vivere come Chiesa la misericordia e il volto della misericordia? Se dovessi dire la misericordia è veramente il caso più grave e difficile di questa nostra Chiesa. È caso serio per noi, dove caso serio vuol dire una realtà che non è facile da vivere, quello che dirò sembra semplice, ma coinvolge le nostre vite, e dall’altra un caso serio che fa da cartina al tornasole. Per quello che riguarda il nostro essere alla sequela di Gesù, perché se non viviamo la misericordia, la nostra sequela è fatta a parole ma non c’è adesione in senso forte al messaggio e alle scelte di Gesù, e dall’altro elemento, se crediamo veramente che il regno di Dio sia il compimento ultimo, il realizzarsi del progetto di Dio che Gesù è venuto a inaugurare e ad aprire, è prima di tutto e fondamentalmente da viversi e sperimentarsi nella forma di una misericordia inclusiva. Quello che è il punto chiave della nostra fede, la memoria di Gesù e l’attesa del compimento del regno di Dio, il nucleo della nostra esperienza di fede, è tutto segnato dalla misericordia. Se la Chiesa non trova il modo di essere misericordiosa e di vivere la logica della misericordia comprensibile nel mondo di oggi, nelle scelte, nel senso di ciò che comporta per l’uomo e la donna di oggi, la Chiesa fallisce la trasmissione xxx. Il papa in questo, anche rispetto ai tempi del Concilio, ci porta davanti ad una scelta decisiva e dice “c’è una discriminante per noi come Chiesa”: è ritornare al vangelo della misericordia. Ecco perché ribadisce continuamente questo concetto, ecco perché ce ne dà esemplificazioni in segni provocatori, provocanti e in parole che chiedono di spiegare e comprenderne la logica. Proprio perché è il caso grave e difficile, e la Chiesa ha questa responsabilità di fondo
Perdono Che cosa comporta vivere la misericordia? Io ne accoglierei due tratti, e lo faccio proprio ritornando alla memoria di Gesù. Non commenterò dei testi biblici, ma voglio richiamarvi due direttrici nelle quali la misericordia si incarna quando si gioca a livello di parole ecclesiali e stile ecclesiale di struttura. La prima parola chiave legata alla parole misericordia è la parola “perdono”, dove in Dio che ha misericordia, è Dio, che senza legare nulla alla negatività delle scelte fatte e dell’esperienza del peccato e della colpa posti davanti, sa offrire la possibilità di un futuro. Niente viene negato della negatività, ma tutto viene trasfigurato perché avere misericordia ed essere misericordiosi è la capacità di porsi davanti alla negatività sapendo poi che quella prospettiva di futuro, quella prospettiva di noi è possibile, che spinge la persona che aiuta la persona in un cammino di cambiamento, un cambiamento di mentalità. Come dice Hannah Arendt la famosa filosofa della metà del ‘900 “perdonare è interrompere l’odio”. L’odio davanti a una esperienza di negatività, avrebbe una immediata reazione uguale e contraria [faide N.d.R.], che chi ha subito violenza, chi ha subito un torto immediatamente, quanto immediatamente, vorrebbe porre. Perdonare è interrompere questa realtà, questa logica immediata di un “feedback” uguale e contrario. In fondo il perdono prende corpo quando si è capaci di rimuovere il peso morto del nostro passato, e di restituire alla vita la vera bellezza e la vera potenza del perdono. Perché questo permette a chi ha subito violenza, a chi ha subito torto e a chi l’ha compiuto di aprirsi al futuro. Il primo volto della misericordia è fondamentalmente il volto del perdono. E la parabola della misericordia su cui avete riflettuto (Luca 15) ci ribadisce questo: la misericordia è quel dono della vita che fa nascere, rinascere, che genera vita nuova, un futuro nuovo, non solo a chi è stato agente di violenza, di torto, di colpa, ma è possibilità e speranza di vita nuova anche per chi ha subito questa realtà. Perdono in fondo vuol dire non imbalsamare la persona nell’errore che ha compiuto. Riconoscere tutta la gravità dell’errore fatto, perché questo è necessario e la giustizia non è l’opposto del perdono, della riconciliazione, della misericordia, ma si tratta di comprendere che nessuno è imbalsamato nella irreversibilità della scelta che ha posto. Una persona, ogni persona, per la misericordia è considerata capace di un futuro nuovo, di un futuro possibile, di essere altro rispetto a ciò che si è stati fino a questo momento. È la scommessa sul futuro, su un nuovo inizio, su una possibilità che viene data all’altro, ma che anche ricevi per te stesso. Perché a volte si dice “la misericordia e l’amore sono la stessa cosa”. Io dico no, perché l’amore ha a che fare anche con la esperienza di una positività, uno sviluppo, una maturazione continua. Quando si parla di misericordia si ha sempre a che fare con una realtà di negatività che uno deve affrontare. In questo caso la colpa, l’errore, la violenza subita. E quindi il perdono ci dice della misericordia un primo elemento: è la capacità di reagire davanti a una negatività pensata e vissuta, che però ci sollecita. Sempre pensando alle figure dei testi evangelici, colpisce che quando Gesù deve affidare a qualcuno la sua autorità per il bene della comunità – in questo caso penso a Pietro, dopo la risurrezione di Gesù (Gv 21) – Gesù affida questa facoltà a chi ha sperimentato su se stesso l’errore, il tradimento, il fallimento di una vita. A questa persona Gesù dà possibilità, chiedendo di esprimere il suo voler bene – “mi ami tu? Mi vuoi bene?” – e su quella base viene data la missione di pascere le pecore, non viene data a chi nella sua vita si è sempre considerato perfetto, capace in tutto, e che ha giocato se stesso semplicemente in uno sviluppo progressivo. Viene affidato con estrema sapienza, e per la Chiesa questa deve essere la logica, di guidare la comunità, di pascere le pecorelle a chi ha vissuto il tradimento più forte e più grande, dopo aver giurato che non avrebbe mai tradito. In questo senso la prima cosa che colgo per la Chiesa è che le nostre comunità devono imparare a sapersi porre davanti alla negatività, anche del tradimento delle nostre aspettative e della nostra fiducia dando a tutti e a ciascuno la possibilità di un nuovo inizio, perché il perdono incarna esattamente questa dinamica: un atto anticipatore di quel futuro desiderato che permette di ristabilire la relazione. Quindi chi perdona non si blocca nel passato, e non pensa il presente semplicemente come sviluppo del passato, ma perdona e sa avere misericordia come Dio chi sa sempre guardare permanentemente al futuro desiderabile per se stesso e per l’altro, quindi chi sa proiettare il suo sguardo in questo futuro.
Aiuto concreto nel bisogno Il secondo tratto della misericordia è l’aiuto concreto nel bisogno, questo è l’altro tratto che trovate in tutte le pagine del Vangelo. Gesù mostra la sua misericordia perché la sua capacità di sostenere e aiutare chi è nel bisogno è molto evidente. Anche qui c’è una dimensione di negatività, il bisogno a cui non si riesce a trovare risposta, la carenza, la miseria delle persone che Gesù ha incontrato, a cui ha risposto, trova nel suo cuore misericordioso, nella sua identità di soggetto misericordioso la possibilità di una trasformazione. E qui è molto forte il testo biblico, voi avete letto Luca 15 con fra Gabriele, che è venuto a presentarvi questo testo, e a cuore del racconto che è stato presentato - ve lo avrà già detto – c’è il padre che guarda da lontano, il figlio che torna, il primo dei due perduti, e dice il testo “commosso gli corse incontro”. In realtà questo “commosso” è espresso come participio di un verbo greco che è “splagchna”, ve lo dico in greco perché è cosa che sta all’interno “l’utero”. Tanto è vero che questo verbo greco traduce una parola ebraica “rahamim”, tradotto nell’Antico Testamento con viscere della misericordia. In realtà il termine che noi addomestichiamo, perché siamo sempre un po’ con questo falso pudore, con questa “pruderie”, invece di tradurlo per quello che è (utero) lo traduciamo con viscere di misericordia, così nessuno capisce che ci si sta riferendo all’utero e si perde l’idea di base che Dio ama come una madre. Anche noi in italiano diciamo “l’amore ferino”, ma sarebbe proprio il verbo che dice il percepire il bambino dentro di te che si muove. Quindi la reazione fra Dio e la persona, fra chi sostiene l’altro che è nel bisogno, e questa persona che sta nel contesto di una qualsiasi forma di povertà, è quello che è mosso, che è animato da percepire con amore uterino l’amore con l’altro. È come tuo figlio che senti crescere dentro di te, che senti muovere dentro di te, e la madre percepisce un amore immediato e totale, tenero e attento. Così sente anche Dio. Io non ho avuto figli, ma questo è quello che mi hanno raccontato spesso. Quando nella parabola del padre misericordioso si dice che “commosso gli corse incontro” vuol dire “commosso” lo amò di amore uterino, coinvolto totalmente, e gli corse incontro. E questo stesso termine altre due volte viene usato per Gesù (Lc 7) quando Gesù incontra il corteo funebre della vedova di Nain che sta portando a seppellire il suo figlio unico, non c’è futuro, non c’è possibilità, la situazione è di bisogno assoluto ed estremo, e anche lì il vangelo dice “Gesù la vide e commosso …”, è sempre la dimensione, non è tanto avere compassione, avere pietà, ma è la dimensione di un sentirsi partecipe e amare così intensamente, come l’amare nei confronti di un bambino. E cosa fa Gesù in questo caso, davanti al bisogno? Non è un bisogno economico, ma il bisogno estremo di una persona che vede svanire il futuro davanti a sé: è vedova, il figlio unico è morto. Si avvicina, tocca, tocca la bara, incontra la persona, dà un futuro. Ma tutti questi gesti estremamente concreti nascono da quella che è la dinamica interiore di un amore radicale come quello di una madre, un amore materno. E la terza volta che torna questo è nella cosiddetta “parabola del buon samaritano”. Quando vede l’uomo lasciato a terra mezzo morto – sono già passati il sacerdote e il levita, hanno guardato, hanno attraversato la strada a continuare il loro percorso e a guardare da lontano, lasciando mezzo morto l’uomo esattamente come avevano fatto i briganti – il samaritano vide e – dice il testo – ne ebbe compassione. Quell’avere compassione è sempre lo stesso verbo che viene tradotto in tre modi diversi ed è il verbo di chi è mosso concretamente da quest’amore, e quest’amore si traduce poi concretamente nell’avvicinarsi, a rischio della propria vita, per ungere e porre olio e vino sulle ferite, caricare sul proprio asino, cambiare strada, portare, pagare la locanda, pagare di più. Tutto sta o accade per il samaritano – è Gesù il samaritano di quella parabola – perché c’è questa dinamica di un essere misericordiosi che si traduce in azione concreta. Perché insisto su questo? Perché il papa più volte ha detto nella “Evangelii Gaudium” e nelle sue omelie “la Chiesa è chiamata a farsi buon samaritano”, se volete, dobbiamo diventare una Chiesa di samaritani. Ma qui non conta che cosa tu fai, non conta puntare sulle energie, sulla forza di volontà, sull’aspetto etico, perché questo verbo “xxx”, il verbo dell’amore uterino, dell’amare maternamente, ci dice che quello che conta non è ciò che stai per fare, ma conta ciò che tu sei. Ecco perché lo slogan del Giubileo è “Misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso”, perché la questione non è tanto porre gesti di misericordia, ma essere misericordiosi, divenire misericordiosi, assumere questo sguardo, questo cuore, questa coscienza, questi valori per cui tu “sei misericordioso” nei confronti dell’altro. Eserciterai il perdono, eserciterai un’infinita serie di attività concrete, che rendono la condizione dell’altro nel bisogno diversa e aperta al futuro. Ma il problema nostro è “diventare Chiesa misericordiosa”, prima ancora di agire e chiederti cosa dobbiamo fare. Quando mi avete proposto il tema ho detto “la vera sfida non è che cosa dobbiamo fare”, ma “chi dobbiamo essere”. Come essere misericordiosi come Gesù, come il Padre? Come assumere, maturare questo cuore e questa prospettiva. La maturiamo se accettiamo che noi stessi siamo stati oggetto, e siamo oggetto di misericordia, cioè se riconosciamo dentro di noi l’incompiuto, la frattura, l’errore, quella impossibilità di futuro che a un certo punto della nostra esistenza ci ha bloccato e stroncato. Allora se volete la misericordia – mi fa piacere parlarne fra adulti e giovani adulti – perché la misericordia è una sfida che è comprensibile, e anche che può essere colta in tutte le sue manifestazioni da chi conosce le fatiche, la complessità, i limiti gli errori dell’esistenza. È difficile essere misericordiosi semplicemente quando sei giovane, o quando ti concentri in maniera radicale su certe posizioni e sei inflessibile e duro. Devi aver sperimentato come Pietro l’aver tradito dopo aver detto con tanto entusiasmo “ti seguirò in ogni luogo Signore, in qualsiasi momento, in qualsiasi scelta”. L’aver sperimentato, l’aver riflettuto sul fallimento della tua vita, perché questo sia possibile 40:10 |
Catechesi anno 2017 - Massimo Recalcati - Enzo Bianchi
Catechesi anno 2015 - don Luciano - Massimo Recalcati
Catechesi anno 2014 - mons. Gero Marino
Catechesi anno 2013 - fra Luca Pozzi - Luigi Accattoli - Lorenzo Caselli